Un confronto tra i dati italiani ed europei, dal 2016 al 2017, per fare chiarezza sul fenomeno migratorio e consentire una riflessione ampia e informata su arrivi e accoglienza
«Sbarchi, i perché di un assedio». Si apriva così il Corriere della sera domenica 16 luglio 2017. Un taglio della notizia molto simile a quello usato un anno fa durante la campagna elettorale per il referendum sulla Brexit da alcuni giornali inglesi che “descrivevano” gli arrivi dei migranti sull’isola. Un frame, quello del pericolo immigrazione, che ha contribuito a creare un clima d’opinione che ha condotto alla vittoria del leave con le conseguenze che ormai conosciamo.
“Invasione”, “assedio”. Termini forti ed emotivamente connotati utilizzati come strumento di comunicazione politica e di propaganda. Tutt’altro che neutri nel racconto di un fenomeno complesso come quello dei viaggi degli ultimi anni da Medioriente e Africa verso l’Europa.
In questo contesto non si vuole discutere l’uso di termini come “assedio” per riferirsi ai disperati che arrivano in Italia. Piuttosto offriremo qualche spunto per vedere se esiste una base quantitativa e oggettiva che fondi l’idea di un’invasione. Attraverso gli ultimi dati rilasciati nei giorni scorsi dall’Unhcr è possibile fare un po’ di chiarezza sulle reali dimensioni del fenomeno migratorio.
Il contesto italiano
Partiamo dall’Italia. Nel primo semestre del 2016 la proporzione tra arrivi via mare in Italia e nell’intera Europa era di poco meno di 1 a 3 (70222 arrivi nel nostro paese, 231463 in tutto il continente). Un rapporto che ancora risentiva del flusso massiccio proveniente soprattutto da Siria, Iraq e Afghanistan, e che dalla Turchia raggiungeva le coste greche per intraprendere la via balcanica.
La dichiarazione stipulata tra Erdogan e Ue il 18 marzo 2016 – che in molti ritengono sia stato quantomeno un fallimento sul piano dei diritti umani – si è rivelato, come prevedibile, un macigno che ha cambiato gli equilibri nei viaggi dei rifugiati verso l’Europa. E non solo per i numeri assoluti ma anche e soprattutto per la distribuzione dei flussi.
Dal 30% di un anno fa, si è passati al quasi l’85% attuale degli sbarchi sulle coste italiane (ovvero 83752 su 99864 arrivi complessivi nel continente nei primi sei mesi del 2017).
Tuttavia, e al contrario di quanto previsto da molti, il flusso verso l’Italia non è esploso dopo la chiusura della via orientale. Dai 63mila arrivi del primo semestre 2014, ai 70mila dello stesso periodo 2015 e 2016, l’Italia è passata agli 83752 di gennaio-giugno 2017.
Ciò significa un aumento del 18% rispetto ai primi sei mesi dello scorso anno. Certo, un incremento consistente – circa un quinto in più – ma che non sembra giustificare la definizione di “assedio” neanche se si arrivasse ai 220mila sbarchi nel 2017, soglia ipotizzata per fine anno dai più pessimisti e che rappresenterebbe il 20% in più rispetto ai 181mila del 2016.
E per quanto riguarda l’Europa?
I numeri sono in netto calo rispetto agli anni passati. Alla fine del 2015 erano più di un milione gli arrivi, passati nel 2016 a circa 230mila. Oggi, poco dopo la metà del 2017, sono 110mila. La crisi umanitaria di 2 anni fa si è ridimensionata anche se quotidianamente decine di persone continuano a morire in mare, tra le coste africane e quelle italiane.
Ma questi numeri, quelli italiani e quelli europei, possono giustificare le richieste di blocco dei porti? Il fallimento del progetto di relocation? Gli egoismi di molti paesi membri dell’Ue?
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La foto in evidenza è di © UNHCR/Hereward Holland