Zarsanga, 35 anni, suo marito e i loro sette figli vivono in due tende ai margini della città di Kandahar dall’estate, dopo essere fuggiti dai devastanti scontri intorno alla loro casa nella vicina provincia di Oruzgan. Sono tra i circa 700.000 sfollati interni afghani costretti a fuggire a causa del conflitto nel 2021.
Gli scontri possono essere finiti, ma Zarsanga afferma che non possono tornare nella loro dimora. “Mio marito è tornato [a Urozgan] per controllare la casa e ha scoperto che è stata completamente distrutta. E anche se la ricostruissimo, ora è impossibile coltivare. Sta finendo l’acqua”.
La famiglia coltivava grano, gombo e melanzane in un piccolo appezzamento di terra, oltre a portare avanti un’officina per motociclette, il mezzo motorizzato più comune nelle zone rurali dell’Afghanistan. “Potevamo contare su circa 10.000 afghani al mese [circa 100 dollari statunitensi]”, spiega. “Non era molto, ma ci permetteva di sopravvivere”.
Ora non hanno né un lavoro né una casa, e l’inverno rende la quotidianità ancora più difficile.
Un team della sede locale dell’UNHCR ha consegnato le tende alla famiglia quando era appena arrivata a Kandahar. Zarsanga si augura che arrivino più aiuti.
La famiglia fa affidamento sulle donazioni delle persone vicine e sul credito dei negozi locali per il cibo, ma ora è piena di debiti. “Perlopiù ci sostentiamo con pane e tè, e a volte qualche ortaggio, come ad esempio le patate. Siamo sempre affamati”, ammette Zarsanga, confermando così la crisi che affligge ora l’Afghanistan su una scala più ampia.
Nelle tende “la notte si gela”, spiega la donna. Ed è proprio in una delle tende che la figlia di 19 anni, Mursal, a dicembre ha partorito un bambino senza alcuna assistenza medica.
Zarsanga era lontana quando Mursal è entrata in travaglio, perché aveva accompagnato in ospedale il marito che, secondo le stesse parole della donna, aveva avuto un esaurimento nervoso. “Urlava e agitava le braccia perché sopraffatto da tutti questi debiti e dalla situazione in generale”, aggiunge. A livello nazionale, giungono sempre più notizie di afghani ormai in stato di povertà che si suicidano. In quell’occasione, Zarsanga si era fatta prestare dei soldi per pagare il trasporto all’ospedale principale di Kandahar e le cure.
Una volta tornata, ha trovato il neonato e accanto sua figlia esausta distesa nella tenda. Il marito di Mursal, Fazl, l’ha assistita nel parto insieme alla figlia di 9 anni, Kulsoom. Ora la donna è preoccupata per la salute sia del nipote Ali Khan che della figlia. “Le patate sono il cibo migliore di cui disponiamo. Ma a mia figlia serve qualcosa di meglio per nutrire il bambino”.
I problemi di salute non finiscono qui. Spesso l’acqua che sgorga dalla rete idrica pubblica è sporca. “Abbiamo sempre problemi di stomaco”, afferma Zarsanga. “I bambini spesso hanno la diarrea”. E poi aggiunge: “Non abbiamo acqua a sufficienza per lavarci prima delle preghiere, quindi spesso non prendiamo parte alle funzioni”.
La determinazione della donna si manifesta nelle parole e nei gesti. “Sogno che i miei figli ricevano un’istruzione e abbiano una vita migliore della mia”. Se solo potesse ottenere più aiuto.
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