Le strutture sanitarie di Cox’s Bazar hanno curato sia i rifugiati Rohingya che i pazienti della comunità di accoglienza nel corso della pandemia. Ora, una campagna di vaccinazione nazionale avrà lo stesso approccio inclusivo.
Poco più di un anno dopo, su quasi 30.000 test condotti nei campi Rohingya, solo 400 casi di COVID-19 sono stati confermati, con 10 morti. Le ragioni del numero inferiore al previsto di infezioni registrate e di morti non sono ancora chiare, ma dall’inizio della pandemia, l’UNHCR, l’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati, e altre agenzie umanitarie hanno lavorato a stretto contatto con il governo e le autorità locali per elaborare una risposta che includa sia i rifugiati che le comunità locali del Bangladesh.
“Il coordinamento e la collaborazione tra le agenzie è fondamentale, mentre l’impegno proattivo dei rifugiati e delle comunità ospitanti è stato un fattore cruciale nella risposta al COVID-19 a Cox’s Bazar”, ha detto il dottor Allen Gidraf Kahindo Maina, responsabile dell’UNHCR per la salute pubblica nel distretto.
Inizialmente, questo significava usare radio, video e manifesti nelle lingue rohingya, birmano e bengalese per condividere informazioni su come le persone potevano proteggersi dal virus. La campagna di sensibilizzazione comprendeva anche centinaia di operatori sanitari volontari della comunità, molti dei quali rifugiati, che effettuavano visite porta a porta per condividere informazioni e aiutare le strutture sanitarie locali ad identificare e trattare i casi di COVID-19.
Dall’inizio della risposta, la comunità umanitaria ha contribuito a stabilire 14 centri di isolamento e trattamento (ITC) all’interno dei campi e nelle comunità ospitanti circostanti a Cox’s Bazar. Alla fine del 2020, c’erano più di 1.200 letti disponibili. Gli ITC sono attrezzati per fornire assistenza ai rifugiati Rohingya e ai pazienti della comunità di accoglienza che hanno contratto il COVID-19, con sintomi da lievi a gravi.
Nel maggio 2020, l’UNHCR e il suo partner Relief International hanno aperto il primo di questi centri nella città di Ukhiya, pochi giorni prima del primo caso di COVID-19 tra i rifugiati Rohingya.
Sokina, 35 anni, vive in un villaggio vicino a Kutupalong – il più grande insediamento di rifugiati a Cox’s Bazar, e nel mondo. Con suo marito malato e tre figli da mantenere, era impiegata come collaboratrice domestica presso una famiglia locale quando due mesi fa ha iniziato a manifestare i sintomi del COVID-19. Il suo datore di lavoro le ha consigliato di andare all’ITC locale nella città di Ukhiya per fare il test.
Nonostante vivesse così vicino al campo, Sokina aveva avuto poche interazioni con i rifugiati Rohingya prima di essere ammessa al centro di trattamento. Ha trascorso 17 giorni lì, con altre cinque pazienti donne – tre del Bangladesh e due rifugiate Rohingya. Sono diventate molto unite e si sono sostenute a vicenda in un periodo spaventoso.
“Quando avevo il COVID non avevo la mia famiglia vicina, così le altre pazienti sono diventate come una famiglia per me”, ha ricordato. “Abbiamo parlato e condiviso le nostre esperienze”.
Ha scoperto così la vita che le donne Rohingya conducevano in Myanmar e come sono diventate rifugiate.
“Avevano una bella vita prima in Myanmar, ma ora stanno soffrendo e hanno bisogno del nostro aiuto. Sono solo esseri umani, perché dovrebbero essere trattati male? Noi siamo pazienti, loro sono pazienti, dovremmo essere trattati tutti allo stesso modo”, ha detto.
Nel novembre dello scorso anno, la rifugiata Rohingya Shokiba, anche lei 35enne, ha trascorso 20 giorni con sua figlia di sette anni, Jainak Bibi, nella stessa struttura. Pur non avendo lei stessa il COVID-19, ha potuto stare con Jainak durante il trattamento. Aveva sentito parlare di persone in tutto il mondo che morivano a causa del virus, ma è stata rassicurata da ciò che ha visto all’ITC.
“I medici erano molto bravi e hanno trattato bene tutti i pazienti. C’erano anche pazienti del Bangladesh con noi, ma nessuno è stato trattato diversamente”, ha detto.
Oltre alle ITC, c’era un urgente bisogno di un’unità di terapia intensiva (ICU), con ventilatori per i casi più gravi di COVID-19. L’UNHCR ha aiutato il National Sadar Hospital di Cox’s Bazar ad aprire un’unità di terapia intensiva con 38 letti nel giugno 2020. È stata anche creata un’unità di terapia semi-intensiva (HDU) per fornire assistenza a coloro che si stanno riprendendo dal virus. Finanziamenti per uno staff di 110 persone, i farmaci e tutte le altre necessità sono forniti dall’UNHCR.
Il dottor Kafil Uddin Abbas, che dirige l’unità di terapia intensiva, ha detto che è stata essenziale per salvare le vite dei pazienti colpiti più gravemente.
“Questa infrastruttura è stata un grande sostegno per la gente di Cox’s Bazar, ma anche per l’intera regione”, ha detto. “Questa è l’unica unità di terapia intensiva per l’intero distretto – non solo per il COVID-19, ma anche per qualsiasi altra emergenza medica”.
“Crediamo che questa unità di terapia intensiva possa essere un esempio di solidarietà e di servizio in tutto il paese e anche a livello globale”, ha aggiunto.
All’inizio del 2021, il governo del Bangladesh ha lanciato un piano nazionale di vaccinazione anti COVID-19. Le prime vaccinazioni che hanno avuto luogo nella capitale alla fine di gennaio, e nel mese successivo più di tre milioni di bengalesi hanno ricevuto la loro prima dose di vaccino.
A seguito delle discussioni tra l’UNHCR, i partner del settore sanitario e le autorità sanitarie nazionali, il governo ha ora confermato che i rifugiati Rohingya saranno inclusi nel programma nazionale di vaccinazione utilizzando gli stessi criteri, che danno priorità ai più vulnerabili. Questo include gruppi di persone in età più avanzata, operatori sanitari in prima linea, volontari e insegnanti, tra gli altri. I rifugiati dovrebbero iniziare a ricevere le vaccinazioni nelle prossime settimane.
“Il Bangladesh ha dimostrato una notevole solidarietà e lungimiranza nell’includere i rifugiati Rohingya in tutta la pianificazione dall’inizio della pandemia, compresa la campagna di vaccinazione in corso”, ha detto il dottor Maina dell’UNHCR.
“Proteggere i più vulnerabili in ogni società è essenziale per sconfiggere questo virus”.
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