Una madre racconta la fuga della sua famiglia dalla Siria, attraverso i pericoli del deserto e del mare.
Di Kate Bond
“Mi è difficile pensare al futuro in questo momento”, dice Houda mentre siamo sedute vicine, nel cortile del centro di accoglienza di Lampedusa. Mentre il sole estivo picchia cocente, si lascia sfuggire uno stanco sospiro. “Il mio futuro è nelle mani degli altri.”
Ondate di calore brillano e danzano con la polvere, facendo sembrare i bambini che ci giocano accanto quasi un miraggio. Anche Houda, che con il suo velo marrone si staglia contro le pareti imbiancate a calce, difficilmente può credere che la sua famiglia ce l’abbia fatta fino a questo punto. In alcuni momenti a bordo della barca, mentre attraversavano il mare aperto, il futuro sembrava esistere appena.
All’interno di questi edifici in blocchi di cemento, oltre un migliaio di migranti e rifugiati come Houda e la sua famiglia aspettano di essere trasferiti sulla terraferma. Hanno rischiato tutto per arrivare qui, fuggendo da guerre e violenze in patria, o dall’estrema povertà, prima di intraprendere un viaggio attraverso il Mediterraneo per cercare sicurezza in Europa.
Anche se la sua famiglia qui è finalmente al sicuro, per Houda l’acqua e il calore servono come costante promemoria dei pericoli che hanno affrontato durante il cammino.
La loro vita è andata in pezzi quando il quartiere di Damasco dove vivevano è stato terribilmente assediato. Prima della guerra avevano due case nella capitale siriana, dove suo marito si guadagnava da vivere trasportando generi alimentari. Ma quando una delle due case è stata bombardata, la famiglia è stata costretta a fuggire. Per finanziare la loro fuga hanno dovuto vendere rapidamente anche la seconda.
Il primo porto dove abbiamo fatto scalo era in Libano, ricorda Houda, mentre suoi figli si riuniscono attorno a lei per ascoltarla. Malak, la più giovane, mi offre un biscotto. Come sua madre, è una bimba pacatamente determinata e non accetterà un no come risposta.
Successivamente la famiglia ha volato in Algeria e, volendo lottare per ottenere la miglior vita possibile, ha preso contatto con un contrabbandiere. Houda ricorda che ha detto alla famiglia: “Posso portarvi in Libia. Ho due automobili”. E così hanno guidato attraverso il deserto.
A casa la guerra si intensificava, e la famiglia ormai contava 22 membri. Hanno trascorso quattro lunghi giorni salendo e scendendo dune di sabbia. Erano compressi all’interno delle due vetture, con poco spazio a disposizione per muoversi e, a volte, il caldo che diveniva insopportabile. “È stato difficile,” dice Houda. “Ma tornare indietro non era un’opzione”.
È stato durante il viaggio nel deserto che il marito di Houda, Mohammed, ha avuto un collasso. Oggi, nel centro di accoglienza di Lampedusa, riconosce a malapena i suoi figli.
In Libia la vita non era molto migliore. La famiglia allargata ha trascorso quattro mesi in una casa, tutti ammassati in una camera singola, aspettando che i contrabbandieri li portassero in Europa via mare. Vivevano di cibo in scatola e pane. Poi, è arrivato finalmente il momento di partire.
“Alle due di notte ci hanno detto di andare alle barche”, dice Houda. “Per salire sulla prima abbiamo dovuto entrare in acqua. Era molto profonda e con noi c’erano perecchi bambini. Alle 3.00 eravamo tutti a bordo”.
Mentre parliamo, decine di rifugiati e migranti appena arrivati sono davanti all’ingresso, in paziente attesa di essere esaminati dalle guardie e dagli operatori sanitari che indossano delle maschere. Sono arrivati la sera prima, e molti di loro sono ancora bagnati e tremanti per l’odissea in mare. Houda conosce quella sensazione. “Fino a quando non sorge il sole, alle 9 di mattina, rimani zuppo nei tuoi vestiti”, mi dice.
Houda e la sua famiglia hanno trascorso in mare 16 ore, stipati con centinaia di altri disperati su una barca traballante, con l’unica speranza di stare andnando verso un luogo più sicuro. Anche se l’imbarcazione era dotata di un generatore per pompare l’acqua fuori bordo, erano terrorizzati che si potesse rompere e che la barca così instabile potesse affondare. “C’è voluto molto tempo, perché la barca trasportava troppe persone”, dice Houda sommessamente. “Siamo dovuti andare molto lentamente. Se fossimo andati più veloci la barca si sarebbe rovesciata.”
“Ovviamente temevamo di morire”, continua. “Pensavo che sarei potuta sopravvivere e i bambini morire. O che forse i bambini sarebbero sopravvissuti e io sarei morta. Abbiamo visto la morte in faccia quando eravamo in Siria e ora la affrontiamo qui.”
Dopo un’operazione di ricerca e soccorso di sette ore, incredibilmente tutti i 22 membri della famiglia di Houda sono stati portati al sicuro. Ma quello che ha passato lascia cicatrici profonde.
Adesso, a tre giorni dal salvataggio, Houda spera che riescano ad arrivare in Olanda, anche se si preoccupa per i figli che ha dovuto lasciare indietro. “Se anche andassi in Olanda e mi dessero un palazzo non potrei essere felice, perché sarei comunque lontana da un figlio e da due figlie,” si lamenta. Racconta che le sue figlie sono sposate in Siria, mentre suo figlio è in Libia in attesa di imbarcarsi a sua volta.
Nonostante tutto, i suoi figli qui al centro di accoglienza sono ancora in grado di ridere e sorridere. Noor, una loquace bambina di nove anni, ridacchia quando disegno una faccetta stupida nel mio taccuino. Le chiedo cosa spera per il futuro. “Mi piacerebbe riavere quello che ho perso”, dice, e la madre mi spiega che le è caduta in mare una borsa di gioiellini, impacchettata prima della loro precipitosa fuga dalla Siria.
In Olanda la piccola Noor ha intenzione di comprare moltissimi anelli e cerchietti. “Voglio avere una camera con un bel lettino,” mi dice. “E dipingere le pareti di rosa.”
Per Houda il futuro è molto più difficile da immaginare. La sua famiglia resterà nel centro di accoglienza di Lampedusa per circa una settimana, prima di essere trasferita sulla terraferma. Da lì, dovranno ricostruire le loro vite spezzate – e mettere nuove radici lontano da casa. Houda sente che il suo viaggio è appena iniziato.
Foto di copertina e del servizio: © UNHCR/Francesco Malavolta
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