Peter è seduto all’ombra di un largo albero nel distretto di Adjumani nell’Uganda del nord, ancora terrorizzato dall’idea che la violenza che lui e la sua famiglia si sono lasciati alle spalle li possa raggiungere di nuovo. “A volte nella mia mente penso che verrà qualcuno a uccidermi nella notte, allora mi sveglio e voglio fuggre,” racconta il rifugiato ventiseienne del Sud Sudan. “Mi tranquillizzo, ma a volta il pensiero ritorna.”
Peter ancora ricorda quella tranquilla giornata di aprile del 2013, quando gli scontri tra i gruppi etnici Murle e Nuer sono divampati a Gogolthin, la città natale di Peter, in Sud Sudan. Preoccupati per le proprie vite, Peter, sua moglie Mariam e i loro due figli sono scappati, scalzi, tra le lacrime e le urla dei loro vicini. I suoi fratelli e sorelle erano tra i morti.
Per 30 giorni, Peter e Mariam hanno camminato attraverso Juba, la capitale del Sud Sudan, portando i loro bambini e dormendo solo con gli indumenti che avevano indosso. Peter non aveva idea se i suoi genitori, Mary e Allen, fossero riusciti a fuggire vivi da Gogolthin. “Evitavamo le strade principali perché eravamo troppo terrorizzati,” ricorda. “Mangiavamo radici, erba, e frutta selvatica – era la stagione delle piogge.”
A Juba, la famiglia ha trovato una chiesa presbiteriana, dove il pastore ha dato loro cibo per due giorni e un telo su cui dormire. E’ stato il parroco a suggerire loro che nell’Uganda del nord l’UNHCR li avrebbe potuti aiutare. Gli amici del pastore hanno guidato la famiglia fino alla città di confine Nimule, ma da lì erano soli.
Era la metà di giugno quando Peter e la sua famiglia sono finalmente riusciti a registrarsi nel distretto di Adjumani presso un centro che da quel momento è stato chiuso. Oggi, nonostante abbiano trovato rifugio, la vita è ancora una lotta. “Le persone dormono fuori, non c’è spazio a sufficienza e non c’è un posto in cui poter appendere delle zanzariere,” ha detto Peter, calmando il figlio più piccolo che è stato male per giorni. “L’ambulatorio medico è buono e nelle vicinanze, ma i medicinali per la malaria non sono sufficienti.”
Le operazioni dell’UNHCR a sostegno dei rifugiati nell’Uganda del nord si stavano esaurendo a seguito del rimpatrio su larga scala dopo l’indipendenza dal Sudan nel 2011. Tuttavia, da marzo 2012, a causa degli scontri etnici nello Stato di Jonglei, i sud sudanesi come Peter sono cominciati a fuggire. Nel dicembre 2013 il conflitto si è inasprito e un numero sempre maggiore di persone ha iniziato a raggiungere l’Uganda.
I fondi necessari nel 2014 per far fronte all’emergenza in Sud Sudan ammontano a 224.3 milioni di dollari, ma solo il 43% è stato finanziato. L’Uganda ospita circa 405.000 richiedenti asilo e rifugiati, provenienti principalmente dalla Repubblica Democratica del Congo e dal Sud Sudan.
Degli oltre 150.000 rifugiati del Sud Sudan, la maggior parte sono Dinkas e Nuers provenienti dagli Stati del Jonglei, dell’Alto Nilo e dell’Unity così come dalla capitale, Juba. Il conflitto, comunque, sta coinvolgendo molti gruppi etnici in Sud Sudan e i nuovi arrivi includono persone delle etnie Murle, Bari e anche Anuak, che non si erano rifugiati in Uganda in passato.
Il Paese adotta una politica che consente ai rifugiati di vivere presso degli insediamenti, e non nei campi, dove gli vengono assegnate delle terre per incoraggiarli a produrre il proprio cibo. A Peter e Mariam è stato recentemente riconosciuto lo status di rifugiati – ma devono ancora aspettare molto per ricominciare le loro vite, mentre il governo lotta per acquisire terreni su cui ospitare il numero crescente di rifugiati e fornire loro opportunità agricole.
“Io non voglio tornare indietro,” confessa Peter. “Il mio popolo è stato già ucciso e gli scontri continuano.” Per ora, tutto quello che lui e la sua famiglia vogliono fare è vivere.
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