Ci sono anche sopravvissuti a violenze tra le 93 persone vulnerabili a bordo del volo di evacuazione per l’Italia nell’ambito di un nuovo meccanismo di emergenza.
Un’atmosfera carica di eccitazione e aspettative pervade il gruppo di donne, bambini e uomini in coda fuori da un edificio nella capitale libica, Tripoli. All’interno, membri del personale dell’UNHCR, l’Agenzia ONU per i Rifugiati, si preparano a offrire counselling, assistere nella preparazione dei documenti e distribuire al gruppo articoli da viaggio.
Poco dopo, sui volti del gruppo si scorgono sorrisi e lacrime di sollievo alla notizia che saranno imbarcati sul volo di evacuazione dalla Libia per l’Italia, il primo in due anni. Nel 2020 non era stato possibile effettuare alcun volo a causa del COVID-19 e della chiusura delle frontiere, mentre per la maggior parte del 2021 i voli sono stati bloccati dal Dipartimento libico per il contrasto dell’immigrazione illegale.
Tra le persone che potranno imbarcarsi ci sono alcuni tra i richiedenti asilo più vulnerabili presenti nel Paese. Molti sono donne e bambini, persone sopravvissute a violenze o che presentano gravi malattie. Hanno tutti affrontato situazioni terribili nei Paesi di origine e, successivamente, in Libia, pericoli e difficoltà enormi.
Hayat, una madre eritrea di 24 anni, è arrivata in Libia nel 2017, dopo essere sopravvissuta alla pericolosa traversata del deserto. Il marito era stato ucciso da trafficanti quando la coppia non aveva potuto pagare una richiesta di riscatto per riottenere la libertà.
“L’hanno ucciso davanti ai miei occhi e mi hanno picchiata”, ha raccontato. Hayat, allora, era incinta di sette mesi e ha confidato come negli anni seguenti abbia dovuto lottare duramente per sfamare il suo bambino.
“Ho sofferto… per assicurargli cibo, acqua e pagare l’affitto. È dura essere una donna sola. Crescere un bambino, senza lavoro e nessuno che ti aiuti… sei davvero da sola”, ha detto.
All’arrivo in Libia, molti migranti, rifugiati e richiedenti asilo sono esposti a pericoli, tra cui sfruttamenti e abusi perpetrati dalle reti del traffico e della tratta.
“Sono felicissima di potermi imbarcare sul volo!”, ha esclamato Hayat. “Grazie a Dio, potrò andarmene. Devo andarmene da qui. Ho bisogno di un luogo sicuro in cui poter crescere mio figlio”.
Delle 500 persone ammesse a fare ingresso in Italia nell’arco di un anno, questo gruppo sarà il primo a partire. I voli sono organizzati nell’ambito di un nuovo meccanismo che combina le evacuazioni di emergenza con i corridori umanitari, istituiti in Italia nel 2016. I voli, finanziati principalmente dal Governo italiano, sono inoltre sostenuti da una coalizione di organizzazioni confessionali comprendente Comunità di Sant’Egidio, FCEI e Tavola Valdese.
Zahra, sudanese di 48 anni, madre di tre figli, aveva i soldi appena necessari per pagare il taxi e presentarsi all’appuntamento, ma è felice di avercela fatta.
Ha vissuto in Libia per più di venti anni. Tutti i suoi figli sono nati lì, ma nessuno di loro possiede documenti ufficiali, a eccezione di quello di asilo rilasciato dall’UNHCR.
Il figlio maggiore, Mohamed, 17 anni, è costretto su una sedia a rotelle da quando, nel 2014, mentre il conflitto infuriava, un proiettile gli ha danneggiato la spina dorsale. Stava giocando all’esterno della casa in cui la famiglia viveva a Bengasi, nella Libia orientale, dove il marito di Zahra riusciva a procurarsi lavoretti per sostentare la famiglia.
“Mio figlio non può più parlare né muoversi, ma sono convinta che si riprenderà. Devo prendermi cura di lui tutto il giorno”, ha raccontato.
Allora, i dottori non poterono fare molto. Gli scontri erano incessanti e le strutture sanitarie funzionavano a malapena a causa della mancanza di attrezzature mediche e delle continue interruzioni di elettricità.
La famiglia partì per Tripoli in cerca di maggiore sicurezza, ma in seguito il marito di Zahra morì, lasciandola sola con i tre i figli e nessuno a cui poter chiedere aiuto.
“Il mio unico desiderio è che mio figlio possa curarsi”, ha detto Zahra.
Seduti su un marciapiede fuori dall’edificio, un giovane somalo di nome Abdsamad e sua moglie hanno condiviso la bella notizia al telefono coi parenti. Abdsamad ha vissuto in Etiopia da rifugiato fin dal 2001 prima di arrivare in Libia alcuni fa.
“È stato davvero difficile. Quando soggiorni in un Paese irregolarmente, non hai nemmeno diritto di accedere a un alloggio in affitto o all’assistenza sanitaria”.
“Sono grato di poter partire, ora. Penso al futuro, soprattutto a quello dei miei figli. Speriamo che tutto andrà bene”.
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