Di Preethi Nallu – giugno 2014
FOTO: UNHCR/A. D’Amato
In un solo giorno migliaia didisperati hanno trovato riparo a bordo della San Giorgio, impegnata nell’operazione Mare Nostrum.
Senza il binocolo non sembrava niente di che. Solo un’immagine confusa in blu e arancio che galleggiava dolcemente all’orizzonte. Ho appoggiato le lenti sugli occhi e sono riuscita a vedere meglio: un barcone fatiscente, una coltre di giubbetti di salvataggio e oltre 200 persone ammassate a bordo.
“Sentirai l’impatto quando arrivano,” mi aveva detto il Capitano, asciugandosi le gocce di sudore dalla fronte mentre timonava la nave militare fra le onde. “E’qualcosa a cui non potrai mai essere completamente pronta. Ogni volta è diverso.”
Giù sul ponte si stava preparando un team di soccorso. Dopo diversi giorni di cattivo tempo sarebbe stato il primo intervento quella settimana, ma non l’ultimo. In effetti, prima di andare a dormire, avrebbero soccorso più di mille persone in difficoltà su quattro diversi barconi.
Come tanti altri rifugiati prima di loro, questi uomini, donne e bambini disperati in mezzo al mare quel giorno erano stati fortunati ad essere riusciti ad arrivare in acque italiane. Il viaggio di diciotto ore attraverso il Mediterraneo sarebbe stato pieno di pericoli e per centinaia di loro sarebbe terminato in un disastro. Ma ora, intercettati dalla San Giorgio, tutto quello che potevano fare era sperare di essere soccorsi.
Le donne, i bambini e le persone bisognose di assistenza medica sono stati i primi a scendere dal barcone instabile – fra di loro, anche madri molto giovani. “C’è del latte per il mio bambino?” ha chiesto una di loro, magra ed esausta, stringendo forte il suo bambino fra le braccia. “Il biberon è caduto in acqua.”
Sono state fatte salire a bordo 210 persone, ho preso delicatamente il braccio della donna e le ho chiesto da dove venisse. I suoi occhi erano rossi dalle lacrime. “Vengo dalla città da cui è partita la rivoluzione,” mi ha risposto, intendendo Dara’a in Siria. “Adesso la mia città non c’è più.”
In un centro di registrazione improvvisato i funzionari esaminavano chi era dovuto scappare dalle proprie case. “Non ricordo di aver registrato persone provenienti dalla Repubblica Centrafricana e dal Kashmir allo stesso tempo,” ha osservato un marinaio, scorrendo la lista di nomi e nazionalità. Ho sbirciato da dietro alla sua spalla. Sudan. Eritrea. Pakistan. Somalia, una lista infinita.
Un uomo stanco proveniente dal Kashmir, in Pakistan, ci ha detto di chiamarsi Khan. A 54 anni è stato costretto all’esilio dopo che diversi attacchi militari avevano trasformato la sua vita in un inferno. Un trafficante a Lahore gli aveva promesso “una vita migliore in Occidente” – il viaggio gli era costato i risparmi di una vita.
Dietro Khan il 25enne Mamadou, costretto a fuggire dal Mali dopo le rivolte e il colpo di stato del 2012. Al terzo tentativo di scrivere il suo nome, il marinaio gli ha porto la penna, “per favore, scrivilo tu.”
Quando ho incontrato nuovamente Mamadou, nella zona riservata agli uomini, mi ha raccontato come è fuggito dal Mali riuscendo ad arrivare in Libia. “Sapevo che la Libia era molto pericolosa, ma avevo sentito che c’erano delle barche che ti avrebbero portato in Italia,” mi ha detto, con il viso scavato dalla fatica. “Dovevo tentare, dopo una fuga durata oltre un anno.”
Nel giro di sei ore l’equipaggio della San Giorgio ha soccorso 1.171 uomini, donne e bambini da quattro barconi. Una seconda nave, l’Etna, ha condotto in salvo altre 1.023 persone. Molti sono arrivati a mani vuote, altri riuscendo a portare solo pochi preziosi averi. Tutti bramavano disperatamente di salire a bordo.
Ciascuno aveva le sue ragioni per rischiare la vita in mare. Alcuni fuggivano da conflitti armati in patria, altri scappavano da persecuzioni politiche e religiose. Qualcuno era a rischo di forme moderne di schiavitù, altri manipolati da bande criminali.
Nelle prime ore della mattina successiva ho incontrato Afwerki, che ha sborsato 900 euro per il suo viaggio in mare. Il prezzo stabilito dai trafficanti era alto abbastanza per esaurire i suoi risparmi, ma non abbastanza per permettersi un giubbotto salvagente. Il venticinquenne Afwerki è scappato dall’Eritrea alcuni anni prima per sottrarsi alla leva obbligatoria, ma non sentiva di poter “vivere libero e in sicurezza” come rifugiato in Etiopia. “Vengo dal lato sbagliato del confine”, mi ha detto masticando un panino con gratitudine, speranzoso di poter ricominciare da capo in Europa.
All’estremo dello spettro c’è Anwar, 76 anni, che ha resistito finché ha potuto prima di abbandonare la sua terra, la Siria. “Non so cosa farò,” mi ha confessato dando un’occhiata al nipote più giovane. “A 75 anni sono stato costretto a lasciare il mio paese, con i miei figli. Com’è possibile?”
Anche Thurayya, che viene da Lattakia, è stata costretta a fuggire dalla propria casa con i suoi due figli, suo marito e altri sei membri della famiglia. In Siria era un’insegnante elementare e di inglese. L’ho trovata seduta su una grande area della nave piena di famiglie. “Quando credi che arriveremo in Italia?” mi ha domandato in un inglese impeccabile.
Istintivamente il mio sguardo è caduto sull’orizzonte. Poi, appena la nebbia si è diradata, ho sorriso e indicato in lontananza.
Senza il binocolo non sembrava niente di che. Solo una silouette grigio-verde all’orizzonte. Ma per migliaia di persone costrette a fuggire dalle proprie case e che hanno rischiato tutto in mare, quella sagoma rappresentava una nuova vita. Che finalmente stava per cominciare.
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