Poco dopo il ritrovamento da parte della polizia del corpo della sua amica, abusata e uccisa per aver rivelato di essere omosessuale, Maritza ha saputo che lei sarebbe stata la prossima.
“Un giorno mia mamma mi ha chiamato piangendo”, ricorda la donna, oggi 48enne. Alcuni uomini le avevano puntato una pistola alla testa dicendole che Maritza era un bersaglio. “Mi ha detto di andarmene da lì”.
L’ultima volta che ha visto la sua casa in Honduras è stato nel 2008, attraverso l’oblò dell’aereo in partenza per la Spagna.
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Ora, oltre un decennio dopo, Maritza ha finalmente trovato la sicurezza e l’amore: ha ottenuto lo status di rifugiata e vive a Barcellona con la sua compagna Jenny, conosciuta online nel 2015 quando sentiva di aver toccato il fondo. Da allora, sono unite da un legame inscindibile e insieme hanno aperto un’attività: un negozio di tatuaggi, che porta il nome dell’amica di Maritza assassinata in Honduras.
“Qui sono al sicuro”, spiega Maritza. “Ho il mio lavoro e il mio amore. Non puoi vivere senza amore. Da sola, non penso che avrei potuto creare tutto questo”.
Cresce il numero di persone LGBTI che fuggono da violenze o da persecuzioni in tutto il mondo. Secondo l’International Lesbian, Gay, Bisexual, Trans and Intersex Association, sono oltre 70 i Paesi che considerano le relazioni omosessuali un reato e cinque applicano la pena di morte. Molti rifugiati LGBTI fanno fatica a trovare il supporto di cui hanno bisogno anche quando sono in luoghi sicuri.
Alcuni, come Maritza, scoprono che l’amore può dare loro la forza di guarire e di rifarsi una vita.
“Jenny è entrata nella mia vita quando ero a terra”, racconta. “Soffrivo di depressione e vivevo in un rifugio per senzatetto. Volevo incontrare qualcuno, ma anche sentirmi desiderata. Quando l’ho conosciuta, l’ho vista sorridere e mi è piaciuta all’istante. Ci sosteniamo a vicenda. Vorrei averla incontrata 20 anni fa”.
Ma il delicato ronzio del suo ago da tatuaggi cela un doloroso passato in Honduras.
“Mia madre faceva la prostituta e mio padre lo vedevo raramente. Sono cresciuta con molte persone diverse. Quando avevo nove anni, sono andata a vivere con il mio padrino, che abusava di me sessualmente, fisicamente e psicologicamente. Spesso andavo a trovare mia madre nella capitale. Mi comprava dei regali: orologi d’oro, scarpe da tennis Nike. Ero la ragazza più ricca della scuola, ma non stavo mai a casa perché subivo violenze. Conducevo una doppia vita”.
Compiuti i 17 anni, Maritza è partita per gli Stati Uniti, dove ha trovato lavoro. Nel 2004, è ritornata in Honduras con la consapevolezza di essere omosessuale.
“È stato terribile”, prosegue. “Ero diventata un’insegnante, ma non appena la mia omosessualità è stata scoperta mi hanno licenziata. Sapevo che la preside mi aveva visto con la mia ragazza perché un paio di volte ci aveva superato in macchina. Ero furiosa. Sono diventata un’attivista quando la mia amica è stata accoltellata 22 volte. In Honduras, gli omosessuali non hanno una vita. Sono costantemente discriminati. Non potrò mai farvi ritorno”.
Anche dopo la fuga, i rifugiati LGBTI continuano a essere esposti a rischi, sia nei Paesi di transito che in quelli d’asilo. Molti cercano di nascondere il proprio orientamento sessuale o l’identità di genere nel tentativo di evitare abusi; per questo agenzie umanitarie come l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) faticano a identificarli e a fornire loro assistenza.
Samer* e Fadi* soffrono ancora nonostante abbiano fatto richiesta di asilo. La coppia siriana è stata costretta a fuggire quando il fratello di Samer ha minacciato di morte Fadi. Da allora, hanno dovuto lasciare la propria abitazione sei volte nel tentativo di sottrarsi al pericolo.
Ancora oggi, i due uomini hanno troppa paura di rivelare dove vivono.
“Abbiamo programmato la nostra fuga per un anno”, dice Samer, 28 anni. “Non avevamo denaro, nessun risparmio, quindi abbiamo messo da parte un po’ di soldi. La nostra esperienza in esilio, però, non è come ce l’aspettavamo. La paura non ci ha lasciato, le minacce non sono cessate, viviamo ancora nel terrore. È difficile vivere qui. Nei nostri confronti c’è molta discriminazione perché siamo siriani e anche integrarsi nella comunità LGBT locale è stato difficile. Ci sentiamo diversi”.
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Fadi e Samer sperano di essere reinsediati in un luogo sicuro. E, nonostante le minacce e la paura, l’amore che condividono dà loro la forza di andare avanti.
“Ho rinunciato a tutto per stare con lui”, spiega Fadi, 24 anni. “Ho il diritto di vivere con la persona che amo, senza che nessuno mi chieda cosa stia succedendo e perché. Voglio essere libero di condurre una vita normale. Lo amo moltissimo. Mi rende più forte”.
Samer, che in passato impedì a Fadi di suicidarsi dopo che le loro famiglie tentarono di separarli, non riesce a immaginare la vita senza il suo compagno.
“È forte”, afferma. “Se non lo fosse, oggi non sarebbe qui”.
Le reti di sostegno sono fondamentali per i rifugiati LGBTI, che spesso non possono più contare su familiari e amici e sono esposti al rischio di violenze o di abusi.
“Come esseri umani, tutti facciamo affidamento sulle nostre reti di sostegno: la famiglia, gli amici, i gruppi religiosi o comunitari”, ha dichiarato l’anno scorso Filippo Grandi, Alto Commissario UNHCR. “Quando le persone abbandonano le proprie case e comunità, questi legami si allentano fino a spezzarsi, e spesso aumentano i rischi di protezione”.
L’attivista transgender Pedro*, 25 anni, può finalmente guardare al futuro dopo essere fuggito da El Salvador e aver chiesto asilo in Guatemala.
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“In El Salvador è particolarmente difficile essere transgender”, spiega Pedro. “A causa della mia identità di genere, la mia vita era in pericolo. Le bande di criminali volevano che vendessi droga per loro. Credevano che, essendo transgender, sarei passato inosservato alla polizia. Più volte mi sono rifiutato di farlo, ma una notte si sono presentati a casa mia e mi hanno minacciato, dicendomi che mi avrebbero ucciso se non avessi obbedito. Non volevo lasciare il mio Paese, ma non potevo più rimanere in un posto dove rischiavo la vita”.
Nella sua piccola comunità Pedro ha trovato la sicurezza, sebbene in Guatemala le persone LGBTI possono essere vittime di gravi violenze e discriminazioni.
“In Guatemala, mi sento accettato dal mio quartiere e sono pochissime le persone che mi discriminano. Ho trovato un nuovo amico di cui mi posso fidare. Ho anche conosciuto la mia compagna Lucia* mentre coordinavo un incontro per le celebrazioni del Gay Pride”.
“È stato amore a prima vista”, continua Pedro. “Grazie a lei, sento che sto riprendendo in mano la mia vita. Siamo insieme da un anno circa ormai. Amiamo andare nei parchi cittadini, sederci ai piedi dei grandi alberi e parlare”.
Pedro e Lucia, 25 anni, sprizzano felicità. Appassionati di diritti umani, sono determinati a continuare la lotta per gli altri.
“Se le persone LGBTI subiscono abusi o discriminazioni, è importante farlo sapere”, afferma Pedro. “Non dovremmo stare zitti quando accadono cose del genere. La paura non dovrebbe fermarci. Dovremmo avere il diritto di essere chi siamo, di vivere liberi e al sicuro”.
I rifugiati LGBTI hanno molto da offrire.
Amani, 38 anni, è fuggita dalla Libia dopo che la sua famiglia ha scoperto la sua omosessualità e ha minacciato di chiuderle l’attività. La mancanza di sostegno finanziario, sociale e di altro tipo da parte di famigliari e membri della comunità può rendere molte persone LGBTI vulnerabili. Nelle società in cui la figura femminile ha uno status sociale ed economico inferiore, le donne omosessuali sono particolarmente a rischio.
Tagliata fuori dalla famiglia, Amani ha cercato asilo in Italia. L’imprenditrice ha trascorso quasi un anno in un centro per rifugiati e migranti, insieme ad altre 60 donne.
“Ero triste e in stanza piangevo”, ricorda. “Volevo la mia privacy, ma condividevo lo spazio con tre ragazze. Dovevo stare attenta con chi parlavo. Mi sentivo sola e nascondevo la mia identità perché temevo che le persone mi avrebbero attaccata. Ma, dopo alcuni mesi, ho iniziato a parlare con l’operatore che seguiva il mio caso e ho spiegato il motivo per cui mi trovavo lì”.
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Per cercare di integrarsi, Amani ha iniziato a cucinare per i suoi compagni rifugiati e alla fine ha avviato un’impresa sociale, che ancora oggi è in attività.
“All’inizio era un piccolo progetto”, dice. “Ora è enorme: cuciniamo in molti centri. Mi piace perché puoi parlare con le persone, scambiare conoscenze, ricette e musica. È uno scambio di culture”.
Amani spera che la sua ultima impresa – un gruppo che offre supporto e consulenza alle donne omosessuali richiedenti asilo in Italia – possa facilitare la vita a chi è costretto a fuggire da situazioni difficili.
“Per me è diventata una missione”, aggiunge Amani. “Perché quando sono arrivata qui non ho trovato nessuno che mi aiutasse. Forse ora possiamo fare qualcosa”.
Amani e la sua compagna Maria, che vive in Svizzera, si sono incontrate lo scorso anno a una riunione per volontari in enti di beneficenza. In Amani, Maria ha trovato uno spirito affine al suo, poiché anche lei ha dovuto lasciare il suo Paese: all’età di quattro anni, è infatti fuggita dal Cile con la sua famiglia a causa delle persecuzioni politiche.
“L’ho vista e me ne sono subito innamorata”, ricorda Maria con un sorriso. “Non potevo credere che quegli occhi meravigliosi fossero veri”.
“Siamo così diverse”, aggiunge Amani. “Eppure abbiamo molto in comune. Dice che le mostro cose che non pensava esistessero, che le apro la mente”.
In un tempo in cui oltre 68,5 milioni di persone sono costrette alla fuga, l’amore non è mai stato così importante, perché abbatte le barriere e costruisce comunità. Ha il potere di riunire le persone, anche quando il mondo che le circonda viene distrutto.
L’UNHCR opera per fornire protezione ai rifugiati LGBTI e ai richiedenti asilo in tutto il mondo. Ma le sfide persistono e molte persone rischiano di rimanere invisibili. Abbiamo bisogno del tuo aiuto.
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