Di Baptiste De Cazenove
La nebbia si dissolve su Gado-Badzere, il più esteso sito in Camerun per rifugiati provenienti dalla Repubblica Centrafricana.
Sono le 6 del mattino quando piccoli volti cominciano ad emergere. Grandi occhi neri si spalancano, corpi minuscoli si stiracchiano e lentamente prendono la loro strada per un’imponente capanna aperta ai quattro venti.
Questo è il regno di Adama Hamadou. Come cuoco residente di Gado, è già impegnata con i suoi calderoni. Ma questa rifugiata trentunenne non verrà comunque meno all’altra sua missione: prendersi cura dei suoi 10 orfani, i cui genitori sono morti o da cui sono stati separati durante una brutale guerra nel loro paese d’origine. Dal più piccolo al più grande, hanno trovato una nuova famiglia in Adama, la donna che chiamano “Mama Ada”.
Non è certo una coincidenza che questa cucina sia collocata proprio al centro di Gado. E’ ora del porridge mattutino e una folla arriva rapidamente da ogni parte. Qualcuno viene sporadicamente. “Mia madre è malata e non può cucinare per noi”, dice Hama, 12 anni, portando il suo zainetto di scuola. Altri sono semplicemente golosi. “Ho già fatto colazione ma questo porridge è troppo buono!” esclama Ibrahim, 7 anni, una lista sotto il suo braccio. Oltre a loro ci sono i bisognosi e gli anziani, tutti clienti abituali.
Nulla sembra aver destinato Adama a questo lavoro. “In Centrafrica io commerciavo oro”, racconta, chiamando il suo Paese con il nome francese. Ma la guerra ha messo tutto sotto sopra e lei si è dovuta reinventare. “L’UNHCR stava cercando un cuoco e dopo due settimane di prova sono stata assunta”, Adama ricorda con orgoglio. “Un giorno un coordinatore della Croce Rossa è venuto a trovarmi con un bambino in braccio i cui genitori erano stati uccisi.” Adama, divorziata e madre di tre bambini, non ha avuto bisogno di pensarci due volte. E così è cominciata una nuova avventura.
Dal momento in cui si sveglia, alle 5 del mattino, fino a quando va a letto, i bambini dominano la sua routine quotidiana. Oggi, Adama deve cucinare anche per 62 rifugiati arrivati da una zona di transito vicino al confine, poichè a ogni nuovo arrivato a Gado viene offerto un pasto caldo. Adama abbellisce i suoi occhi con il kajal, indossa un abito e corre al mercato. In breve tempo una moto sovracarica torna indietro. Adama scambia il suo velo per un grembiule e in pochissimo tempo il profumo di spezie si mescola con l’aroma del legno che brucia.
“Bendi!” annuncia lo chef: è pronto! I bambini più grandi si radunano ordinatamente, caricano le pentole sui loro carrelli e se ne vanno. Adama non è una che vizia i bambini che ha in custodia; ha delle regole e non ha paura di cambiare le convenzioni. Così anche i ragazzi devono aiutare a recuperare l’acqua. E, quando lei è fuori per pochi giorni, si cucinano da soli. “Sono rifugiati. Se non vogliono avere pance gonfie” – un segno di malnutrizione- “devono imparare bene a badare a se stessi”, insiste Adama. “Inoltre anche io posso essere stanca. Non posso fare tutto”.
Tanto più che la sua dedizione spesso assume la forma di una lotta per la sopravvivenza. Come cuoca, Adama guadagna solo 1.500 CFA al giorno, meno di tre dollari, “non abbastanza per sfamarli”. Dall’UNHCR non ricevono nulla di più rispetto agli altri rifugiati: una razione di cibo mensile. Ma l’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati e il suo partner incaricato dei servizi per la comunità, IEDA Relief, sono estremamente impegnati ad assistere più di 18.000 rifugiati in Gado. Alcuni bambini sotto la sua tutela devono dare una mano e diventare venditori occasionali di bibite.
Adama ha raramente tempo per se stessa. Solo momenti sporadici per pregare o ascoltare musica sul suo telefono, ci spiega. Nel tardo pomeriggio lei può sedersi e rilassarsi con i bambini. “Quindi, sei andato a scuola o hai giocato di nuovo a football? Raccontami cosa hai imparato,” prende in giro i bambini. Oppure mette fine a qualche lite di adolescenti. Ma l’ora di cena si avvicina. “Venite dopo, piccoli diavoli, lasciatemi sola adesso. Questa è una cucina!” esclama in francese. Loro si disperdono e Adama riaccende i fornelli.
Così scende la notte, il suo ruolo assume un’altra dimensione, spiega. “Noi parliamo durante la cena. Io ascolto. Loro mi raccontano cosa è accaduto in Centrafrica, le atrocità, gli scontri in Camerun…” e dopo si va a dormire, “io li consolo, gli racconto delle storie.” I bambini dormono in una capanna; Adama e le ragazze ne condividiono un’altra. Anche lei va a dormire presto, “per ignorare i tristi ricordi che riemergono con la notte.”
Adama ha portato un nuovo equilibrio nelle vite di questi bambini. Tanto che una settimana prima i funzionari dell’UNHCR erano riluttanti a riconsegnare Hamadoua, 8 anni, alle cure dei suoi genitori, che vivono in condizioni terribili. Ma la gioia sul volto della ragazza, quando ha visto i suoi genitori, ha chiarito che sarebbe tornata con la sua famiglia.
Ma Adama da sola non può fare tutto. Feisty Mariamou, di 8 anni, insiste nel suo silenzio, e solo ieri Suleiman, 13 anni, ha cercato di scappare. Adama lo descrive come un bambino testardo, solo e ribelle. Lui ha giustificato la sua fuga come un tentativo di trovare “la sua vera famiglia.” Un membro dello staff dell’UNHCR ha convinto il ragazzo a tornare nel campo, dove adesso porta avanti le sue faccende con rinnovato entusiasmo. “Mama Ada mi considera come un figlio,” dice Suleiman. “Farò ogni cosa per meritarlo. Io le devo davvero tanto.”
Mama Ada trova la forza da qualche parte dentro di sé. Lei ne avrà bisogno: quattro nuovi fratelli le sono stati appena assegnati. Adama non crede nei miracoli, ma spera di tornare in Repubblica Centrafricana un giorno. Nel frattempo, “Farò di tutto per aiutare i miei figli a cominciare una nuova vita”. Tra gli operatori umanitari, queste eroine di tutti i giorni sono conosciute come Mamans lumières – madri di luce. Lei è la sola qui in Gado.
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