Il rifugiato iraniano Abouzar e suo figlio, Armin, hanno scelto di rimanere in Ungheria nonostante siano stati trattenuti al confine per 18 mesi. Una nuova produzione teatrale offre alcuni indizi sul perché.
Fortunatamente, questa non è la cosiddetta “zona di transito” al confine meridionale dell’Ungheria, dove Armin ha passato due compleanni in un campo chiuso e suo padre ha girato un cortometraggio chiamato “Fish” per tenere alto il morale del ragazzo.
Ora che vivono liberamente in Ungheria, padre e figlio iraniani interpretano se stessi in una produzione teatrale sulle esperienze dei rifugiati.
“Sono così contento di poter finalmente raccontare la nostra storia al pubblico ungherese attraverso questo spettacolo”, dice Abouzar, 39 anni, un artista dilettante ed ex responsabile delle pubbliche relazioni di un ospedale della città di Isfahan.
E la loro è una storia straordinaria.
Quando la Corte di giustizia europea ha stabilito, nel maggio 2020, che tenere i richiedenti asilo nelle due zone di transito al confine dell’Ungheria costituiva una detenzione illegale, Abouzar e Armin sono stati trasferiti in un centro aperto per richiedenti asilo. Da lì avrebbero potuto andare in altri paesi, come hanno fatto molti ex detenuti. Eppure, hanno scelto di rimanere in Ungheria, il paese che li aveva tenuti confinati e dove, come ha detto Abouzar, si sentivano “come pesci in un acquario”. Perché?
Questa è la domanda che ha incuriosito Martin Boross, il regista dello spettacolo “Kolónia” (Colonia). “Per qualche misteriosa ragione, hanno scelto di restare”, dice. Il pubblico deve aspettare per scoprirlo.
Lo spettacolo è messo in scena dalla compagnia teatrale Stereo Akt in una vecchia fabbrica di tabacco a Budapest che ha ospitato i rifugiati della guerra civile in Grecia tra il 1949 e il 1966. L’allora governo comunista ungherese li accolse a braccia aperte.
Kolónia intreccia la storia dei rifugiati greci con quella di Abouzar e Armin e lascia decidere al pubblico se ci possono essere dei parallelismi.
“La società ungherese ripensa con nostalgia e romanticismo al modo in cui abbiamo accolto i rifugiati greci”, dice Martin. “Ma più recentemente, abbiamo rinchiuso i rifugiati nella zona di transito”.
Nella prima scena dello spettacolo, i trafficanti cercano di vendere ad Abouzar il viaggio attraverso varie rotte marittime e terrestri per fuggire alla persecuzione religiosa in Iran. Abouzar dice al pubblico: “Avevo letto spesso sui giornali di persone annegate in mare, così già in Iran ho deciso che saremmo andati via terra”.
Il trafficante gli dice che il percorso via terra fino all’Austria durerà quattro giorni. In realtà, il viaggio dalla Turchia è durato settimane e Abouzar e Armin hanno passato due anni in Serbia aspettando di entrare legalmente in Ungheria.
Sul palco, la scena si sposta al confine ungherese, dove danzatori popolari in costumi nazionali pestano i piedi e cantano minacciosamente. Un gruppo di funzionari canterini fa ad Abouzar domande assurde e preme su dei pulsanti quando sbaglia le risposte. Poi vediamo padre e figlio nel container di 6 metri per 2, nella zona di transito.
Poco dopo essere entrati in Ungheria nel dicembre 2018, la domanda di asilo di Abouzar è stata respinta, e lui e Armin sono stati trasferiti in un’area ad alta sicurezza della zona di transito, dove è stato ripetutamente detto loro di tornare in Serbia o in Iran. Il ragazzo si è aggrappato al suo giocattolo preferito di SpongeBob, che vediamo nello spettacolo.
Abouzar racconta al pubblico: “Il governo ungherese ha chiamato campo la zona di transito, ma in realtà era una prigione. Muri, recinzioni, filo spinato e agenti di polizia ovunque. Niente erba, niente alberi; solo pietra, cemento e metallo”.
In totale, hanno trascorso lì 553 giorni.
Nel corso dell’opera, vediamo Abouzar aggiungere altri ritocchi al suo dipinto del pesce. Il film di tre minuti che ha fatto con il suo cellulare racconta la storia di un pesce d’acquario che alla fine raggiunge l’oceano. E infatti il film è stato proiettato ai festival del cinema di Budapest e Bratislava.
Il pesce simboleggia anche la profonda fede cristiana di Abouzar. Dice al pubblico: “La Bibbia dice che bisogna perdonare. Nel momento in cui Cristo viene crocifisso, dice: ‘Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno’. Ora, quando ripenso al mio percorso, mi viene in mente questa frase”.
Abouzar descrive come la sua sofferenza lo ha reso più tollerante. “Più grande era la pressione, più ci avvicinava agli altri [nella zona]. Ho cominciato ad essere grato di vivere con afghani, curdi e iracheni, contro i quali prima avevo dei pregiudizi. Agli occhi di Dio, siamo tutti uguali”.
Lo spettacolo si conclude con la notizia che Abouzar e Armin sono stati riconosciuti come rifugiati e si uniscono a un cerchio di ex rifugiati greci, ballando insieme con gioia.
Sostenuti dalla chiesa battista, Abouzar e Armin ora vivono in un appartamento nella città occidentale di Győr, vicino al centro per rifugiati dove sono andati dopo aver lasciato la zona di transito. Armin, che ora ha 12 anni, va a scuola.
Abouzar parla di un senso di rinascita. “Una stanza normale, con altezza e finestre normali. Quando siamo stati liberati, ho allungato le braccia per sentire lo spazio. Finalmente possiamo respirare”.
Resta da chiedersi perché abbiano scelto di restare in Ungheria dopo la loro straziante esperienza.
Una ragione, dice Abouzar, è stato l’aiuto che hanno ricevuto quando avevano toccato il fondo, dai cristiani ungheresi, dalla ONG locale il Comitato Helsinki Ungherese e dal personale dell’ufficio dell’Agenzia ONU per i Rifugiati (UNHCR) a Szeged che li ha visitati.
“Ci hanno mostrato che l’Ungheria ha un altro volto”.
E anche se la zona di transito ha rubato un anno e mezzo della vita di suo figlio, Abouzar è incline a vedere il suo tempo lì come una redenzione.
Le opinioni espresse nel contenuto esterno non riflettono necessariamente quelle dell’UNHCR.
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