Motivato dal proprio vissuto personale, Ameen Jubran, fondatore dell’organizzazione, e il suo team hanno continuato a fornire protezione e infondere speranza nei cittadini yemeniti costretti alla fuga anche al culmine dei combattimenti.
La prima volta in cui ha dovuto abbandonare la propria abitazione risale al 2015, allo scoppio del conflitto che di lì a poco avrebbe causato una delle peggiori crisi umanitarie del mondo e provocato lo sfollamento di oltre 4 milioni di persone all’interno del Paese. Insieme alla sua famiglia, e a molti altri, Jubran ha lasciato la città natale di Sa’ada, nel nord-ovest dello Yemen, e ha raggiunto la vicina città di Razih.
“Penso che ci fossero almeno 10.000 persone in fuga a piedi contemporaneamente. Alcuni di noi erano stipati nei bagagliai delle auto; le stazioni di servizio lungo la strada stavano bruciando”, ricorda Jubran, 37 anni. “Sembrava la scena di un film”.
Il momento peggiore è stato nel 2017, quando il quartiere di Razih in cui viveva è stato bombardato e la sua casa è stata scossa da un’enorme esplosione.
“I vetri sono andati tutti in frantumi. Ero in una stanza con mia figlia e ho visto del sangue sulle sue mani”, racconta. Mentre correvano per mettersi in salvo, Jubran decise di portare con sé la preziosa bicicletta di sua figlia.
“C’era polvere ovunque; nel panico e nel caos, ho preso la bici di mia figlia e sono corso giù. Sono arrivato al primo piano e mi sono accorto di aver preso la bici ma di aver dimenticato mia figlia”.
Dopo aver radunato tutta la famiglia, ripartirono di nuovo in cerca di salvezza, questa volta stabilendosi nella capitale Sana’a. Ma il ricordo del panico e della confusione provate durante la fuga è vivo ancora oggi.
Sono queste esperienze, insieme alla convinzione che gli yemeniti devono aiutarsi a vicenda durante una guerra che dura da più di sei anni, alla base della decisione di Jubran di fondare l’organizzazione umanitaria Jeel Albena Association for Humanitarian Development.
L’ha fatto grazie all’aiuto di quattordici ex-compagni di università, con cui aveva già collaborato, durante gli studi, per portare assistenza agli studenti costretti a fuggire a causa delle violenze. Oggi, l’organizzazione conta oltre 160 dipendenti e 230 volontari, molti dei quali hanno dovuto abbandonare le proprie abitazioni.
Ha sede nella città portuale di Hudaydah, sul Mar Rosso, e grazie al suo lavoro ha costruito 18.000 rifugi di emergenza per sfollati interni che vivono in accampamenti di fortuna all’interno e nei dintorni di Hudaydah e a Hajjah.
Nel 2018 Jubran e i suoi colleghi hanno dovuto trasferire gli uffici dell’organizzazione ben quattro volte, a causa dell’acuirsi degli scontri per il controllo di Hudaydah e del continuo spostamento dei fronti militari, che li esponeva a sparatorie ed esplosioni. Ma nonostante il pericolo, l’organizzazione ha deciso di restare e portare il proprio aiuto.
“Le zone in cui operiamo sono considerate tra le più povere e le più pericolose”, spiega Jubran. “Ogni giorno ci sentivamo in pericolo, ma nonostante ciò abbiamo continuato ad assistere sfollati e altre persone che avevano bisogno del nostro aiuto. Non potevamo di certo abbandonarli a loro stessi”.
Ospitando le famiglie sfollate in rifugi realizzati con foglie di palma khazaf intrecciate, che sono più ecologicamente sostenibili e più adatte al rigido clima locale rispetto a materiali artificiali, l’organizzazione fornisce lavoro a centinaia di migranti e abitanti del luogo – per lo più donne – che coltivano, tessono e vendono la materia prima.
“Avere un riparo è una necessità primaria per chi fugge”, spiega Jubran. “Fornisce protezione e restituisce dignità alle famiglie”.
L’organizzazione gestisce circa 90 siti informali che ospitano da 100 a 1.000 famiglie, fornendo servizi igienico-sanitari e ristrutturando gli edifici scolastici per accogliere i bambini. Dirige inoltre un centro comunitario a Hudaydah che offre assistenza legale, consulenza psicologica e formazione professionale ai migranti e alle comunità ospitanti.
È per la dedizione dimostrata nell’aiutare gli sfollati yemeniti durante il conflitto che Jeel Albena è stata scelta come la vincitrice globale del Premio Nansen per i Rifugiati dell’UNHCR per il 2021, un prestigioso riconoscimento annuale dello straordinario impegno profuso da chi assiste migranti forzati o apolidi.
Il premio mette in evidenza anche lo straordinario lavoro svolto sul campo da molte ONG operanti in Yemen.
Sarà consegnato dall’UNHCR, l’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati, nel corso di una cerimonia virtuale che si terrà il 4 ottobre alle 18.30 CET.
Il Premio Nansen per i Rifugiati è stato istituito in onore di Fridtjof Nansen, esploratore e operatore umanitario norvegese, primo Alto Commissario per i rifugiati della Società delle Nazioni nel 1921 e vincitore del premio Nobel.
Passeggiando tra i siti su cui sorgono le abitazioni in foglie di palma fornite da Jeel Albena, il sorriso contagioso di Jubran si riflette sui volti sorridenti delle persone che si riuniscono per salutarlo come se fosse un vecchio amico. Molti lo conoscono da anni e sanno che capisce la loro situazione.
“Abbiamo affrontato molte difficoltà simili, tutti sappiamo cosa significa stare lontani dai propri cari, dagli amici”, spiega Jubran. “La mia esperienza ha influenzato il modo in cui mi occupo di altre persone costrette a fuggire. Ho imparato a essere più empatico, paziente e pronto ad ascoltarli e a conoscere i loro veri bisogni”.
Nonostante il senso di ottimismo che, come lui stesso afferma, contraddistingue gli yemeniti e mantiene vivo il sogno di un futuro di pace, Jubran sa bene che la disperazione può sopraffare chi è costretto a fuggire a causa di un conflitto.
Alcuni anni fa, dopo sei mesi di lavoro in prima linea durante i quali non ha potuto vedere la moglie e le figlie rimaste a Sana’a, Jubran ha avuto un crollo ed era sul punto di abbandonare il suo lavoro.
È stata una conversazione con suo padre a fargli cambiare idea.
“Mio padre mi disse: ‘Non puoi smettere proprio ora che lo Yemen sta attraversando la sua peggiore crisi umanitaria, le persone fuggono dalle proprie case ogni giorno e tu puoi ancora aiutarli’”, ricorda.
È salito in macchina, è andato a Hudaydah ed è tornato subito al lavoro, e da allora non si è più fermato.
“Mi sono detto: mi rilasserò a guerra finita”.
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