Mihret, rifugiata etiope, si è nascosta nella boscaglia per giorni senza cibo né acqua in fuga dal conflitto nel Tigray. Ora al sicuro in Sudan, sta usando le sue abilità di ingegnere per aiutare la sua comunità.
“È stato come guardare un documentario in televisione, solo che è successo nella vita reale”, dice.
La sua corporatura esile nasconde la sua personalità sicura e la sua determinazione a farcela nel duro ambiente che ora chiama casa: l’insediamento di rifugiati di Tunaydbah nel Sudan orientale.
“Pensavo che non ne sarei uscita viva. Ero davvero spaventata”, dice l’ex docente e ingegnere civile che si trovava nel campus quando c’è stato il trambusto e la confusione, quando i suoni degli spari e delle bombe hanno riempito l’aria.
“Quando ho lasciato l’ufficio, ho visto persone ovunque. Tutti correvano per salvare se stessi e i loro figli. Le strade erano piene di persone che si spingevano a vicenda”, aggiunge.
È corsa a casa di sua zia e ha aspettato che calasse la notte prima di fuggire. Insieme alla zia e ai cugini, si sono nascosti nella boscaglia per giorni senza cibo né acqua, perché era troppo pericoloso stare all’aperto. Alla fine sono riusciti ad attraversare il confine con il Sudan dopo aver camminato a lungo su un terreno aspro.
Come le decine di migliaia di etiopi che sono fuggiti in Sudan, Mihret ha portato a malapena qualcosa con sé. Ma si considera fortunata perché è riuscita a salvarsi la vita, e ha con sè a Tunaydbah suo fratello minore, la zia e i cugini.
“Siamo i fortunati”, dice. “Tanta gente, i nostri amici e le nostre famiglie sono morti laggiù e durante il viaggio. I loro corpi non sono stati nemmeno sepolti. Sono felice che siamo sopravvissuti”.
Da quando è arrivata nell’insediamento, sta lottando con i ricordi delle atrocità che ha visto e che sono ancora vividi nella sua mente.
“Bambini e madri sono stati violentati. Le madri incinte partorivano e lo stesso giorno dovevano fuggire a piedi”, ricorda, le sue lacrime finalmente cedono. Si stringe forte le mani per tenerle ferme.
Il suo dolore è tangibile, ma sembra determinata a superare il suo trauma e a ricostruire la sua vita. Aggiunge che trova un po’ di conforto nel lavoro e sta usando le sue capacità come volontaria nel campo, lavorando con l’UNHCR, l’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati e altre agenzie come l’International Humanitarian Partnership (IHP) per supervisionare la creazione di un ufficio mobile nell’insediamento e la costruzione di varie strutture come i servizi igienici.
L’UNHCR e i partner stanno fornendo servizi di base come cibo, alloggio, assistenza sanitaria, acqua e servizi igienici ai rifugiati nell’insediamento, e stanno anche identificando modi per aiutarli a creare attività commerciali e a guadagnare qualcosa.
La maggior parte dei rifugiati qui sono bambini e giovani, che come Mihret hanno abilità e qualifiche accademiche.
In Etiopia, Mihret si è diplomata in edilizia e poi ha proseguito gli studi e ottenuto una laurea in gestione delle costruzioni. Ha in programma di proseguire gli studi con un master alla fine.
“Amo l’ingegneria”, dice. “Fin da bambina, mi piaceva costruire cose e il mio sogno era di essere un medico, un ingegnere o un pilota”.
La maggior parte dei giorni, Mihret si alza alle 6 del mattino e lavora fino alle 14, controllando i generatori dell’ufficio mobile, i serbatoi d’acqua e la costruzione generale nell’insediamento. Più tardi, nel pomeriggio, fa la volontaria alla clinica della salute, assistendo le madri rifugiate a ottenere servizi medici per se stesse e per i loro figli.
“Lo faccio perché molti nella mia comunità, specialmente le madri, non capiscono la lingua di qui. Hanno bisogno di aiuto e io voglio aiutarle”, spiega Mihret, che parla arabo, la lingua ufficiale parlata in Sudan.
Quando non è al lavoro, trascorre il tempo con sua zia e i suoi nuovi amici nell’insediamento, preparando il tradizionale caffè etiope e ricordando la sua casa.
“A casa facevamo una bella vita. Mi manca uscire con i miei amici, la libertà di muoverci e di comunicare”, dice.
Nonostante tutto quello che ha passato, è fiduciosa che le cose miglioreranno.
“Dio ci dice di non perdere la speranza”, dice, strizzando gli occhi al sole di mezzogiorno.
Aggiunge che continuerà a lavorare e ad aiutare la sua comunità fino al giorno in cui potrà tornare a casa quando ci sarà la pace.
“Prima non conoscevamo il valore della pace, ma ora sappiamo quanto sia importante perché l’abbiamo persa”.
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