Mentre una nuova ondata di violenza nel Nord Kivu ha fatto recentemente notizia, una crisi nascosta sta invadendo la vicina provincia di Ituri.
La notte in cui la sua vita è cambiata per sempre, Madeleine*, 30 anni, aveva preparato una semplice cena a base di casava per i suoi quattro figli, tra cui Emmanuelle, di due anni, che portava ovunque legata alla schiena. Dopo una dura giornata di lavoro nella piccola fattoria di famiglia, sono andati a letto esausti, mentre il silenzio calava sul villaggio.
Alle 4 del mattino, Madeleine è stata svegliata di soprassalto. “Gli aggressori sono apparsi all’improvviso, sono arrivati nel nostro villaggio a piedi, brandendo machete e pistole”, racconta. “Hanno fatto irruzione in tutto il villaggio, entrando in una casa dopo l’altra”. Forzando l’ingresso nella casa di Madeleine, gli aggressori si sono avventati sui suoi figli con i machete. In pochi minuti erano tutti morti. Rivolgendo la loro spietata attenzione a Madeleine, l’hanno colpita al braccio destro, alla mano sinistra e alla testa. “Mentre mi colpivano, sono caduta a terra, troppo esausta per oppormi. Non avevo più la forza, né la voglia di vivere dopo che avevano massacrato i miei figli”.
Madeleine era al nono mese di gravidanza. Quando il personale medico è arrivato dopo l’alba, l’ha trovata ancora in vita. I medici hanno praticato un parto cesareo d’emergenza per far nascere il bambino e si sono occupati delle ferite sanguinanti di Madeleine. “Non so come ho fatto a sopravvivere”, racconta la donna.
Durante l’attacco al villaggio di Gudda lo scorso anno, 17 persone sono state uccise e molte altre mutilate. L’insicurezza sta guidando una crisi nella provincia di Ituri che, secondo le stime, ha costretto 1,5 milioni di persone ad abbandonare le proprie case negli ultimi sei anni. La violenza è diventata così diffusa e comune che anche coloro che cercano rifugio nei campi per sfollati interni non sono più al sicuro.
Dopo anni di relativa calma, il 2017 ha visto l’inizio di attacchi sistematici ai villaggi da parte di vari gruppi armati. Bruciano case, rubano bestiame e massacrano intere famiglie. Gli attacchi, apparentemente insensati, sono motivati dal desiderio di controllare l’accesso alle vaste ricchezze minerarie dell’Ituri, in particolare l’oro, ma sono anche alimentati da una radicata animosità tra due comunità: gli Hema, tradizionalmente pastori, e i Lendu, agricoltori.
Gli attacchi sono aumentati in frequenza e ferocia. “Due anni fa, ricevevamo 10 feriti a seguito di un attacco”, dice il dottor George Otshudima, chirurgo dell’ospedale del capoluogo, Bunia. “Oggi riceviamo almeno 30 persone per ogni attacco”.
Gli attacchi ai civili si verificano quotidianamente. L’8 gennaio, gruppi armati hanno attaccato quattro villaggi nel distretto di Drodro, nel territorio di Djugu, uccidendo almeno 25 persone, tra cui cinque bambini, e bruciando decine di case. La maggior parte delle persone uccise erano ex rifugiati tornati a casa. In seguito agli attacchi, la maggior parte degli abitanti del villaggio è fuggita nel vicino campo per sfollati interni di Rhoe, dove molti di loro si trovano ancora senza un riparo. In totale, almeno 1.264 sfollati e rimpatriati sono stati uccisi da gruppi armati nel 2022 in soli sei territori delle province di Ituri e Haut-Uélé.
Anche nei campi per sfollati interni non è garantita la sicurezza. Il 1° febbraio 2022, 62 persone sono state uccise e decine gravemente ferite durante un grave attacco al campo di Plaine Savo, nel territorio di Djugu, dove vivono oltre 40.000 persone.
“Negli ultimi mesi la violenza ha raggiunto livelli inaccettabili e i gruppi armati hanno attaccato anche gli insediamenti dove gli sfollati hanno trovato rifugio dopo che i loro villaggi erano stati saccheggiati”, afferma Denis Oulai, ex capo ufficio dell’UNHCR a Bunia.
“È terrificante. Gli sfollati non hanno un posto sicuro dove andare e molti di loro sono già stati costretti a fuggire più volte”.
L’attacco di febbraio al campo di Plaine Savo è iniziato alle 20.45, quando 100 uomini armati e alcune donne hanno invaso il sito. Sono passati da un rifugio all’altro, uccidendo chiunque trovassero con pistole e machete, fino all’arrivo delle forze di pace delle Nazioni Unite della MONUSCO (la Missione di Stabilizzazione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite nella RDC) per mettere in sicurezza il campo.
Richard ha perso il suo amato figlio di 27 anni, Désiré, nell’attacco. “Stava camminando tra i rifugi, dicendo con un megafono alle persone di fuggire nella direzione opposta a quella in cui si trovavano gli aggressori”, racconta Richard, che ha seguito gli ordini del figlio ed è corso a nascondersi nella boscaglia con la moglie, i 10 figli e i nipoti. “Era buio e mio figlio non ha visto gli aggressori. Gli hanno sparato più volte. Poi lo hanno colpito al volto con un machete”, racconta Richard.
Désiré è stato sepolto in una fossa comune a Plaine Savo. A distanza di quasi un anno, Richard si trova ancora sconsolato a vagare per i sentieri che percorreva suo figlio, nella disperata speranza di rivederlo. “Mio figlio ha compiuto l’estremo sacrificio. È morto per avvertire gli altri del pericolo”, dice il 58enne. “Era il mio figlio maggiore. Si prendeva cura di me quando ero malato. Era molto presente nella mia vita”.
Richard è sfollato e vive a Plaine Savo dall’agosto 2019, quando è stato creato l’insediamento. Non ha mai pensato che i gruppi armati avrebbero osato attaccare il campo. “Non c’è nulla che possa attirarli qui. Non abbiamo nulla, solo rifugi”.
La vita era già dura per gli sfollati che vivono a Plaine Savo, dove la maggior parte ha cibo sufficiente per un solo pasto al giorno. Ora non si sentono più al sicuro e circa 1.500 residenti del campo, soprattutto donne e bambini, camminano ogni sera fino alla vicina città di Bulé, a tre chilometri di distanza, per passare la notte presso famiglie ospitanti o sui freddi pavimenti di scuole e chiese. Tornano poi a Plaine Savo il mattino seguente. Dopo l’attacco, gli adulti vivono nella paura e i bambini soffrono di incubi. Poveri, affamati e spaventati, ogni giorno è una lotta per la sopravvivenza.
Ma ciò che gli sfollati desiderano più di tutto è la sicurezza: poter vivere in pace e forse un giorno tornare alle case e alle vite che sono stati costretti a lasciare.
A quasi un anno dall’attacco al suo villaggio, Madeleine si sta lentamente riprendendo. Ha subito un altro intervento chirurgico al braccio sinistro e il suo bambino, di nome Bahati, è sano e non ha subito danni dalla violenza che lo circonda.
Madeleine sta ancora elaborando ciò che ha subito.
“Un giorno gli racconterò le circostanze della sua nascita”, dice di Bahati. “Ma per il momento, lui è il mio raggio di speranza”.
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