Di Lauren Bohn – maggio 2014
Foto: UNHCR/A. McConnell
Quando uno dei più famosi ristoratori del Libano, Kamal Mouzawak, ha visto la crisi siriana riversarsi nel suo cortile di casa, ha deciso di fare qualcosa.
L’anno scorso ha creato Atayab Zaman, “Il Passato Delizioso”, un programma di formazione culinaria che permette alle donne rifugiate di provvedere alle proprie famiglie attraverso i piatti che cucinano e mangiano da tutta la vita.
Con il sostegno dell’UNHCR e della Caritas, l’anno scorso circa 20 donne hanno partecipato al programma di formazione. La maggior parte sono desso cucina per il ristorante di Mouzawak, Tawlet e per la caffetteria dell’UNHCR, anche se Mouzawak spera di raccogliere abbastanza soldi per dare alle donne uno spazio tutto loro.
Mouzawak, il cui motto è “Make food, not war”, dice che spera di mostrare la forza delle donne attraverso la ricca tradizione culinaria del loro paese. In occasione del terzo anniversario del conflitto siriano, sei donne hanno ricordato il loro viaggio, ciascuna raccontando una storia di coraggio e perseveranza. Ogni piatto è un racconto pieno di sentimento e ricerca di sostentamento – una protesta appassionata dello stato dei fatti, e speranza per un domani più pieno.
Nahrein Abdal, 37 anni, fuggita da Hassakeh 14 mesi fa con i suoi figli. “Non conoscevamo il concetto di paura”, dice. “Poi ci ha sopraffatto e da allora non ci ha abbandonato. Abbiamo lasciato la Siria, ma la Siria non ci ha lasciato … I problemi ci stanno seguendo”. Nahrein, vivace e piena di vita, cerca di non pensarci, e spruzza semi del melograno sopra il suo piatto a base di carne, mentre muove i fianchi al ritmo di un sottofondo musicale immaginato.
“Voglio lavorare di più, ho voglia di cucinare di più,” dice mentre presenta con orgoglio il suo vassoio colorato “Voglio essere il Master Chef dei rifugiati siriani.”
Rasha Mhemid, 31 anni, è fuggita da Homs con il marito e quattro figli su un taxi privato fino a Beirut. Ha pensato che sarebbe rimasta solo per cinque mesi – una partenza temporanea, una lunga vacanza, come ha spiegato ai suoi figli. Ma solo di recente ha accettato di dover costruire una nuova vita da zero.
“Adesso il nostro quartiere è chiuso”, dice. “Non possono uscire e non riusciamo a raggiungerli al telefono.” Racconta che piangeva ogni giorno, ma la cucina le ha dato qualcosa da fare – un modo per mantenere la mente lontano dalla crisi, una passione per guardare avanti e non dietro. “Prima del programma non avevo amici. Ora ho sorelle. Piango ancora, ma non così tanto”.
Nel febbraio 2013, Ibtisim Masto, 34 anni, e suo marito si sono diretti verso Damasco su un autobus sovraffollato con i loro sei figli, dove hanno aspettato un altro autobus per Beirut. “Mi manca tutto, anche l’aria che si respirava in Siria,” dice. “Eravamo soffocati dalla paura, ma adesso stiamo morendo di nostalgia.”
Ibtisim non sapeva cosa stava firmando quando ha visto il volantino sul programma di cucina. “Ho pensato che avrei potuto imparare qualcosa. Non pensavo che avevo qualcosa da dare”, dice. “Ma questo mi ha dato speranza. Prima mi sentivo rifiutata, come se fossi un peso per il Libano. Poi improvvisamente ero in grado di contribuire e non solo ricevere”.
Marleine Youkhanna, 40 anni, di Hassakeh, è venuta in Libano lo scorso agosto con il marito e tre figli. Hanno portato con loro 20 anni di risparmi – denaro risparmiato per l’educazione dei loro figli, sperando che sarebbero stati i primi nella loro famiglia ad andare all’università. Ma Marleine sa che ci sarà un momento in cui il denaro finirà.
“Ecco perché sto cercando di migliorare”, dice, mentre cucina le polpette. “Ecco perché voglio cucinare per tutto il paese.”
Marleine, cristiana, dice che non vede alcuna speranza che la guerra finisca presto.
“Prima di lasciare la Siria, ho dato la chiave di casa al mio vicino musulmano”, dice. “Sarà lui a proteggerla”.
Ricorda gli iracheni arrivati in Siria per sfuggire alla guerra nel 2003. Ha cucinato per loro, e anche ospitato temporaneamente alcuni nella sua casa. Non ha mai pensato che sarebbe stata nella stessa situazione dieci anni dopo.
“E’ tutto difficile,” dice, sistemandosi la retina dei capelli. “Ma non si può aspettare che le cose ti cadano dal cielo. Devi andartele a prendere”.
Mariam Al Bakkour, 31 anni, ha lasciato Aleppo con il marito e i quattro figli un anno e mezzo fa. Come gli altri, continuava a ripetersi che i combattimenti sarebbero presto finiti. “Ogni sera, dicevo ai miei figli di non preoccuparsi, che l’indomani sarebbe andata meglio.”
Ma quando una mattina si è svegliata con i carri armati che circondavano il suo palazzo, ha iniziato a fare i bagagli. Hanno aspettato sei ore per il cessate il fuoco tra il governo e i combattenti, e sono fuggiti. Dice che non sapeva la differenza tra sunniti e sciiti fino all’inizio della guerra. “Abbiamo giocato tutti insieme da bambini”, ha detto. “Ci chiamavamo siriani, non sunniti”.
Spera di cucinare di più in modo da trasferirsi con la sua famiglia in una casa più grande. In questo momento, vivono in sei in una piccola stanza. “A volte ho dovuto appendere il bucato dei miei figli su di loro mentre giocavano. Questa non è infanzia. Mi vergogno”.
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