La casa di Manal è stata distrutta dalle bombe e dai proiettili durante i combattimenti.
In seguito alle minacce ricevute dai ribelli e all’omicidio di un giudice, ha realizzato che la sua stessa vita era ormai in pericolo.
Con poco tempo e denaro a disposizione per organizzare il viaggio per tutti e quattro, decise di partire da sola nella convinzione che i suoi figli l’avrebbero raggiunta a breve, una volta che fosse stata al sicuro. Li avrebbe rivisti dopo oltre un anno.
Manal ha trovato la salvezza in Danimarca nel dicembre del 2014, ma i suoi problemi erano tutt’altro che finiti. Scoprì ben presto che avrebbe dovuto attendere tre anni per ottenere il diritto al ricongiungimento famigliare con i suoi tre figli: altri tre anni di preoccupazione per i suoi figli in Siria e per il loro pericoloso viaggio verso l’Europa.
“Avevo un solo desiderio”, ha raccontato. “Rivedere i miei bambini. Non potrei mai immaginare di vivere senza di loro. Nessuno vuole vivere senza i propri figli.”
Disperata, Manal si rivolse ai trafficanti di esseri umani affinché portassero al più presto la sua famiglia in Danimarca.
Il viaggio è cominciato nell’ottobre del 2015: Manal si è sempre tenuta in contatto con la figlia maggiore, la diciottenne Sarah, tramite Facebook e Whatsapp perché sapeva che il viaggio poteva essere estremamente pericoloso.
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Il 30 ottobre, Sarah scrisse che avevano trovato qualcuno che li avrebbe portati oltre il confine, in Turchia, e da lì avrebbe trovato il modo di farli arrivare in Grecia via mare.
Solitamente la traversata dalla Turchia all’isola greca di Lesbo dura poche ore, perciò Manal era entusiasta quando Sarah le scrisse che avevano raggiunto la costa turca e che sarebbero salite su un gommone all’alba del mattino seguente.
Dopo questo messaggio, Manal non ebbe altre notizie. Andò a dormire temendo il peggio e, al risveglio, apprese di un’imbarcazione che si era rovesciata a largo di Lesbo. Molti di coloro che erano a bordo risultavano dispersi in mare: era il gommone su cui viaggiavano i suoi figli.
Quando apprese dai notiziari delle decine di uomini, donne e bambini affogati, il mondo le crollò addosso. Sola, in un centro di accoglienza e atterrita dal rimorso, si raggomitolò, scossa dai brividi, incapace di muoversi.
Per tutto il giorno controllò le foto dell’incidente in cerca dei volti dei suoi bambini.
Il quarto giorno Manal trovò la foto di un bambino affogato che somigliava in tutto e per tutto al suo piccolo Karam, di soli otto anni: gli stessi capelli ricci, gli stessi occhi, lo stesso volto innocente. La foto era sfocata ma era comunque molto probabile che quel bambino fosse proprio lui.
“Che senso ha la vita sei i tuoi figli sono morti?”, si chiese. “Non volevano altro che vivere al sicuro, e ora sono morti perché ho detto loro che la Danimarca era un posto sicuro in cui venire a vivere.”
Ma all’improvviso nella posta Facebook di Manal apparve un messaggio; era molto breve e proveniva da uno sconosciuto, ma era comunque il messaggio più bello che una madre potesse ricevere. Diceva semplicemente: “I tuoi figli sono vivi e si trovano in Turchia.”
Un pescatore aveva salvato Karam, Joudy e Sarah in mare e li aveva portati sull’isola turca di Cunda. Si trovavano in una prigione, con ancora indosso gli abiti bagnati della loro fallita traversata. Ma almeno erano vivi e stavano insieme. Dieci giorni dopo furono rilasciati.
I bambini e loro padre decisero di continuare il viaggio per raggiungere la madre. Rimanere in Turchia o tornare in Siria non erano soluzioni percorribili se volevano tornare ad essere una famiglia, il loro desiderio di riunirsi era più forte della paura di annegare. Nonostante i timori di Manal, i suoi figli riuscirono a raggiungere l’isola di Lesbo in Grecia.
Dalla Grecia, i ragazzi proseguirono verso nord, in treno, attraverso i Balcani. Impiegarono circa un mese per arrivare in Danimarca e finalmente riunirsi con la madre nel novembre del 2015: erano stati separati per oltre un anno.
Manal e i suoi figli vivono ora in Danimarca da undici mesi, ma le decisioni relative al ricongiungimento famigliare e le pratiche per l’asilo dei ragazzi sono ancora in corso. Per questo motivo le autorità li hanno separati di nuovo, trasferendo i figli in un altro centro di accoglienza a più di un’ora di distanza da quello di Manal.
Il costo del treno e dei due autobus che deve prendere per vederli, la lunghezza del viaggio e il dover incastrare le visite con il suo lavoro da traduttrice volontaria fanno sì che per Manal sia molto difficile vedere i propri figli tutti i giorni. Tuttavia, ora sono al sicuro e molto più vicini di quanto non lo fossero un anno fa e Manal si augura che altre persone non debbano affrontare gli stessi pericoli vissuti dalla sua famiglia per stare insieme.
“Nessuno dovrebbe attraversare un oceano e rischiare la vita per ricongiungersi con la propria famiglia”, ha affermato, “Nessuno”.
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