Astrid van Genderen Stort, Responsabile dell’Unità Emergenze ed External Engagement, UNHCR
Alla fine dello scorso anno mi sono recata nella parte meridionale dell’Etiopia. Sono stata testimone delle enormi sfide che le persone costrette a fuggire e le comunità che le ospitano stanno affrontando a causa della più grande siccità degli ultimi quarant’anni. Nel Corno d’Africa sono state colpite 36 milioni di persone, di cui 24,7 milioni nella sola Etiopia. Sono profondamente toccata da ciò che ho visto e dalle storie di sofferenza e di sopravvivenza che ho ascoltato.
Per cinque stagioni consecutive la pioggia è caduta raramente, e le conseguenze sono state: terre arse, bestiame decimato e livelli drammatici di insicurezza alimentare. Tutto ciò è stato esacerbato dall’inflazione economica e dall’impennata dei prezzi delle materie prime. Allo stesso tempo, i conflitti tra le comunità – comprese quelle già colpite dalla siccità – e l’insicurezza si sono intensificati in tutto il Paese, come nella regione di Oromia, nel sud-est del Paese. La carestia non è (ancora) stata dichiarata nel Corno d’Africa, ma l’impatto a lungo termine è già presente. È necessario intervenire ora più che mai per evitare che si verifichi il peggio – come già successo durante la carestia del 2011 nella vicina Somalia.
Dopo essere atterrati a Melkadida, una piccola città nella parte sud-orientale della regione somala dell’Etiopia, abbiamo viaggiato per due giorni su strade rocciose fino al remoto campo per sfollati interni di Berdale, vicino alla cittadina di Kersadula, al confine con l’Oromia. Lungo la strada abbiamo visto strutture a forma di bolla – piccoli rifugi rotondi fatti di bastoni e sacchetti di plastica, che sono spuntati a centinaia negli ultimi mesi per fornire un riparo alle persone costrette a fuggire. Carcasse di animali erano disseminate sul terreno, rinsecchite dall’aridità, e i pozzi prosciugati erano circondati da persone con taniche, per lo più donne e ragazze, che speravano di placare la loro sete. Circa 200.000 rifugiati e sfollati sono arrivati qui negli ultimi sei mesi, mentre le comunità ospitanti e le persone costrette a fuggire in precedenza sono state gravemente colpite dall’impatto di questa grave siccità.
Vicino a uno dei pochi serbatoi in cui era rimasta un po’ d’acqua piovana, ho parlato con Muslima Dawoud Farah, mamma di 27 anni appartenente alla tribù emarginata dei Bantu. È fuggita dall’Oromia mesi fa a causa dell’insicurezza ed è stata derubata delle poche risorse rimaste alla famiglia da aggressori di un’altra comunità. La competizione per le scarsissime riserve d’acqua è feroce: in media una persona ha bisogno di 20 litri al giorno per poter bere, cucinare e lavarsi. Muslima riesce a malapena a procurarsi una tanica d’acqua da 20 litri ogni tre giorni per la sua famiglia di 10 persone, per una cifra che può permettersi solo mandando i figli in città nella speranza che possano guadagnare una piccola somma che aiuti a mantenere la famiglia in vita. Il più delle volte tornano a mani vuote.
Come si può immaginare, la mancanza di acqua e cibo ha effetti devastanti sugli individui e sulle comunità nel loro complesso. Vicino al campo di Berdale, impoverito e affollato, ho incontrato Aisha Haji Hadjir, 21enne fuggita di recente dalla sua casa, che cercava di far mangiare a suo figlio una barretta nutrizionale specifica per i bambini malnutriti. Aisha mi ha detto che suo figlio faticava a mandar giù qualsiasi cosa, persino l’integratore speciale. “Cerco di darglielo, ma lui vomita”, mi ha detto. A causa della mancanza di cibo, anche queste barrette nutrizionali destinate ai bambini malnutriti vengono condivise tra più famiglie.
Aisha è fuggita dall’Oromia qualche mese fa, quando la sua terra e il suo bestiame sono stati presi dai suoi ex vicini che, incitati dai ribelli, ritenevano che non appartenesse più alla loro comunità in quanto somala. Aisha vive da mesi in un desolato insediamento, e la mancanza di cibo ha influito sulla possibilità di allattare. Mentre parlavamo, suo figlio aveva gli occhi vitrei che si muovevano su e giù e i suoi piedini erano gonfi e tumefatti. È stato davvero straziante assistere a questa scena.
È una grande tragedia che centinaia di migliaia di persone debbano sopportare queste condizioni. L’UNHCR, insieme al governo dell’Etiopia e ai suoi partner, sta aiutando dove possibile, ma con risorse limitate questa può sembrare una battaglia senza fine. C’è un disperato e urgente bisogno di maggiore assistenza.
Le comunità si aiutano l’una con l’altra e, quando possono, cercano di sfruttare le risorse che hanno. Fadhouma Adow Shame, 49 anni, è arrivata qui con la sua famiglia di 10 persone, fuggendo dagli orrori subiti dalla sua comunità. “I ribelli uccidevano, violentavano e rapivano le donne, facendole diventare loro mogli. Ci hanno portato via il bestiame e la terra: prima avevamo abbastanza, producevamo anche miele. Tutti abbiamo sofferto per la siccità, ma questo – la scarsità di risorse – ha reso il conflitto più feroce”.
“E’ stato impossibile trasportare qualcosa di più dei nostri figli. Qui condividiamo tutto. Una padella viene usata da sette famiglie. Il poco cibo che abbiamo lo condividiamo. Lo compriamo con i soldi ricavati dalla vendita della legna, da un piccolo lavoro o semplicemente chiedendo l’elemosina“.
È difficile conciliare queste storie inimmaginabili con il coraggio e la forza che le persone qui dimostrano quotidianamente. Ibrahim Abdi Ahmed, 33 anni, sua moglie Amina Abdirahman Hassen, 28 anni, e i loro sei figli sono arrivati a Deka nel 2018. All’inizio non avevano nulla, ma lui ha guadagnato un po’ di soldi comprando e poi rivendendo una capra al mercato. Con il tempo, è riuscito a costruire un rifugio da zero e un serbatoio per l’acqua piovana. Le sue risorse hanno permesso di costruire solo un piccolo serbatoio – o “birka”, come viene chiamato – che di solito contiene una piccola quantità di pioggia. Ibrahim condivide gratuitamente con la sua comunità la poca acqua che raccoglie; tuttavia, con le scarsissime piogge, la dipendenza dall’acqua piovana rende le persone sempre più vulnerabili alla siccità. È urgente investire per aumentare la capacità di sfruttare le acque sotterranee attraverso i pozzi e le acque di superficie dell’unico fiume perenne nelle vicinanze, il Genale.
Le persone che sono state costrette a fuggire non vogliono tornare a casa perché lì non hanno più nulla. Il loro bestiame è morto o è stato rubato. Le loro terre sono scomparse, sono prosciugate e improduttive o conquistate da tribù rivali. Anche se domani piovesse in abbondanza, ci vorrebbero anni per ricostruire i propri mezzi di sostentamento. E’ urgente un aiuto immediato per fornire cibo, acqua e riparo agli sfollati, la maggior parte dei quali non ha nulla. Ma è fondamentale pensare a soluzioni a più lungo termine, anche per costruire la resilienza delle comunità. Date le diverse esigenze e la fluidità della situazione, l’UNHCR dà priorità all’assistenza economica diretta per proteggere le famiglie sfollate più vulnerabili.
In altre zone dell’Etiopia, come Melkadida, grazie al sostegno del governo e dei donatori, dal 2011 l’UNHCR ha potuto avviare iniziative che aiutano sia gli sfollati che la comunità locale. I sistemi di irrigazione hanno permesso alle persone di creare cooperative agricole che producono cibo e reddito per la comunità. Creare maggiori opportunità di irrigare i terreni per la produzione alimentare e sistemi di approvvigionamento idrico sostenibili, come pozzi che funzionano a energia solare, garantirà alle famiglie un approvvigionamento idrico più affidabile durante tutto l’anno.
Questo tipo di investimenti nelle comunità fin dall’inizio di una crisi può ridurre notevolmente la dipendenza dagli aiuti e aiutare le persone a ritrovare la dignità, a ricostruire e a riprendere il controllo della propria vita. Le persone sull’orlo della carestia meritano aiuto ora e anche un sostegno che permetta loro di essere autosufficienti in futuro. È probabile che la siccità e gli esodi si protraggano per un lungo periodo di tempo, da cui la necessità di sostenere e costruire la resilienza delle comunità.
Nei miei oltre 25 anni di lavoro come operatrice umanitaria, ho visto molte situazioni devastanti, ma questa mi ha veramente colpito. È difficile trasmettere l’importanza di queste sfide: anche se non è ancora stata dichiarata una carestia, gli effetti a lungo termine sono già palpabili e devono essere affrontati ora, prima che sia troppo tardi. Dobbiamo – e con un sostegno sufficiente, possiamo – evitarlo, come abbiamo dimostrato nel resto del Paese.
Facciamolo insieme prima che sia troppo tardi.
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