Dopo anni di conflitto nella Repubblica Centrafricana, le donne trovano forza e guarigione nella solidarietà.
Un gruppo di donne siede in un polveroso cortile alla periferia della capitale della Repubblica Centrafricana, Bangui. Si incontrano qui ogni settimana per controllare che le altre stiano bene e per discutere dei loro problemi e dei loro successi. A guidarle è Florence Atanguere, una vedova centroafricana costretta a fuggire alcuni anni fa.
“Questa associazione è l’unico modo per noi donne per poterci risollevare”, dice la 51enne, madre di sei figli.
Florence si riferisce all’associazione ‘Femme Debout’, un gruppo composto per lo più da vedove di guerra e orfani che stanno prendendo posizione contro gli effetti del lungo conflitto nella Repubblica Centrafricana.
Quando il conflitto settario tra gruppi armati musulmani e cristiani si è diffuso in tutto il paese nel 2013, Florence ne è stata tremendamente colpita.
Sei anni fa, la sua casa è stata attaccata da uomini armati che hanno pugnalato a morte suo fratello dopo che si è rifiutato di dare loro una macchina. Hanno anche picchiato sua madre ipovedente, ferendola gravemente.
“Urlavo e piangevo. Mi hanno puntato una pistola per zittirmi”, ricorda, visibilmente scossa dal ricordo di quel giorno di dicembre.
Mentre i militanti arrivavano a fiumi, Florence ha preso i suoi figli, i tre figli di suo fratello e l’anziana madre ed è fuggita verso il sito per sfollati interni dell’aeroporto internazionale di Bangui. Come loro, la maggior parte delle persone costrette a fuggire dal conflitto aveva assistito a terribili atti di violenza, tra cui brutali uccisioni di membri della famiglia e terribili violenze sessuali nei confronti delle donne.
Il conflitto nel paese ha costretto oltre un milione di persone ad abbandonare le loro case – quasi 600.000 persone sono sfollate all’interno del paese e un numero simile di persone ha attraversato il vicino Camerun, il Ciad, la Repubblica Democratica del Congo e la Repubblica del Congo.
Florence e la sua famiglia sono arrivati in un campo, dove l’anziana madre non è sopravvissuta alle ferite. La profonda perdita, unita alle pessime condizioni del campo, dove ha vissuto per i tre anni successivi, hanno fatto sì che Florence si mettesse alla disperata ricerca di un forte sistema di sostegno.
E’ stato durante quegli anni nel campo che ha riunito intorno a lei i primi membri di Femme Debout. Tra le prime donne ad unirsi a Florence, che è cristiana, c’è Madina Sadjo, vedova musulmana e sopravvissuta al conflitto.
Separata con la forza dal marito durante un attacco nella sua città natale, Madina è stata devastata dopo aver saputo della sua morte. Florence l’ha aiutata ad affrontare il suo dolore e le due donne sono diventate ben presto intime amiche.
“Una mattina sono andata a prendere un po’ d’acqua nel campo”, ricorda la 53enne. “Piangevo così tanto che ho dovuto fermarmi e sedermi sotto un albero. E’ stato allora che Florence mi ha visto”.
Con l’aiuto di Florence, Madina è riuscita ad affrontare lentamente il suo dolore. Anche Femme Debout l’ha aiutata, dandole il capitale necessario per avviare un’attività nel settore delle torte e del caffè, in modo da permetterle di mandare i suoi figli a scuola.
“Questo gruppo mi ha salvato la vita. Mi sentivo così impotente prima e ho dovuto affrontare così tanto”, aggiunge. “Grazie a loro, ora ho speranza per il futuro”.
Sostenuta dall’UNHCR, l’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati, attraverso la sua agenzia partner PARET, l’associazione conta 175 membri, riuniti in un atto di guarigione collettiva. I membri imparano diverse competenze e contribuiscono con 600 Franchi Centrafricani (circa 1 dollaro) al capitale d’investimento. Una piccola somma viene aggiunta alla riserva di emergenza, che è a disposizione per qualsiasi membro che abbia un bisogno di fondi, pagabili nel tempo, senza interessi.
Il gruppo svolge un ruolo cruciale in un ambiente in cui le donne che hanno sopportato il peso di anni di conflitto, spesso vengono discriminate e affrontano il rischio di violenza sessuale.
“Le donne qui sono viste come inferiori”, spiega Florence. “Ma a poco a poco, ci riuniamo per combattere insieme”.
Soprattutto, il gruppo promuove lo spirito imprenditoriale e l’indipendenza aiutando i membri a sviluppare nuovi mezzi di sussistenza. Possiedono un piccolo appezzamento di terreno dove coltivano cipolle, lattuga, pomodori e altre verdure da vendere al mercato locale. Producono anche sapone e opere d’artigianato, e alcune sono diventate parrucchiere e altre abili sarte.
Per Florence, la forza e la solidarietà della sorellanza che ha raccolto intorno a lei l’ha aiutata a far fronte al trauma di quel fatidico dicembre. Senza essere scoraggiata da qualsiasi linea etnica e religiosa alimentata dal conflitto, il suo gruppo continua ad accogliere sia cristiani che musulmani, facendo in modo che ogni membro possa raggiungere l’autosufficienza, affrontare la sua perdita e guarire.
“Queste donne sono il mio sangue, sono le mie sorelle, le mie madri e le mie figlie. Siamo tutte centrafricane, non importa se se musulmane o cristiane”, dice Florence.
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