La quarantena imposta dal COVID-19 ha avuto pesanti conseguenze per i rifugiati e migranti venezuelani, molti dei quali sopravvivevano a malapena anche prima della pandemia.
Il 2020 si prospettava come un anno migliore per María,* una nonna venezuelana che stava facendo grandi passi avanti verso la ricostruzione della sua vita in Colombia. Lavorando come venditrice ambulante di snack nel centro di Medellín dal tramonto all’alba, María è riuscita a risparmiare abbastanza per mandare a prendere suo figlio, sua moglie e i loro gemelli appena nati. Inoltre, tutta la famiglia si era appena trasferita da una minuscola stanza in affitto a un vero e proprio monolocale.
Poi è arrivato il coronavirus e l’isolamento che ha impedito a María di uscire a lavorare, privando la famiglia del suo reddito e sottoponendola alla fame e allo spettro incombente dello sfratto.
“A un certo punto, non prendevamo neanche il caffè per superare i giorni in cui mangiavamo un solo pasto”, ha detto María, 55 anni, che si è trasferita nel nuovo appartamento proprio il giorno in cui è stato decretato l’ordine di permanenza a casa a Medellín. Bloccata all’interno, la famiglia non aveva idea di come avrebbe fatto a guadagnare soldi per fare la spesa, figuriamoci per pagare l’affitto.
La famiglia ha ricevuto assistenza d’emergenza dal governo colombiano e dall’UNHCR, l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, che ha permesso loro di riprendere a consumare tre pasti al giorno. Ma María teme che la pandemia globale possa invertire tutti i progressi che hanno fatto, lasciandoli in una situazione ancora peggiore nel loro nuovo Paese rispetto a quella che hanno lasciato in Venezuela.
Storie come quelle di María e della sua famiglia sono tragicamente comuni tra gli oltre cinque milioni di rifugiati e migranti venezuelani che attualmente vivono al di fuori del loro paese, in fuga dalla fame, dalla violenza e dall’insicurezza.
La pandemia sta avendo un impatto economico devastante su miliardi di persone e paesi in tutto il mondo. In una recente dichiarazione, l’Organizzazione internazionale del lavoro ha avvertito che “1,6 miliardi di lavoratori dell’economia informale – cioè quasi la metà della forza lavoro globale – corrono il pericolo immediato di veder distrutti i loro mezzi di sussistenza”.
“Senza fonti di reddito alternative”, ha avvertito l’agenzia delle Nazioni Unite, “questi lavoratori e le loro famiglie non avranno mezzi per sopravvivere”.
L’organizzazione ginevrina ha anche notato che i rifugiati e i richiedenti asilo – la stragrande maggioranza dei quali, come María, vive in paesi a basso e medio reddito – potrebbero diventare “doppiamente vittime”, a rischio di contagio e di sprofondare nell’indigenza a causa delle misure di prevenzione.
Nel migliore dei casi, molti rifugiati e migranti riescono a cavarsela alla giornata, senza una rete di sicurezza né una rete di sostegno sociale. Ora, con la pandemia che li ha privati dei guadagni per coprire i loro bisogni primari, sono spesso più a rischio di sfratto, stigmatizzazione, malnutrizione e di diventare senzatetto rispetto alla popolazione in generale.
L’ansia per tutto questo sta divorando Yésica,* una trentatreenne venezuelana madre di tre figli che nel 2017 ha cercato di trovare sicurezza in Ecuador.
Da quando è stata licenziata dal suo lavoro di cameriera in un ristorante di lusso nella capitale ecuadoriana, Quito, all’inizio della pandemia, Yésica ha avuto anche un costante mal di testa e mal di stomaco. Mentre i sintomi sembrano allarmanti come quelli a volte associati al COVID-19, suo marito, che non è stato richiamato al lavoro in un hotel locale da oltre due mesi, assicura a Yésica che i suoi sintomi derivano dallo stress a cui sono sottoposti.
Quando il loro padrone di casa è venuto a bussare, hanno potuto dargli solo la metà dell’affitto. E con la credenza vuota, la famiglia fa affidamento sulle elemosine di un vicino convento per mettere il cibo in tavola.
“Tutto quello che avevo per nutrire i miei figli era riso e burro”, ha detto Yésica, che in Venzuela lavorava come infermiera di sala operatoria, prima che il sostegno della famiglia all’opposizione si traducesse in minacce che li hanno costretti a fuggire.
La coppia ha pensato di guadagnare qualcosa per la spesa sfidando l’ordine di restare a casa per vendere mascherine per le strade. Ma la paura di quanto potrebbe peggiorare la loro già difficile situazione se dovessero ammalarsi li tiene a casa.
Nella disperazione, molti rifugiati e migranti venezuelani hanno già cominciato a tornare per le strade per lavorare, ma sfidare le misure di quarantena li ha trasformati in capri espiatori e li ha messi a rischio di detenzione. Altri hanno iniziato a offrire prestazioni sessuali per sopravvivere (survival sex), mentre altri hanno optato per il rischioso e faticoso viaggio di ritorno in Venezuela.
Tra coloro che stanno seriamente considerando il ritorno c’è Aleydi Díaz, venezuelana di 28 anni che vive in Perù. Prima della pandemia,vendeva acqua in bottiglia e caramelle in un incrocio trafficato della capitale, Lima. Suo marito lavorava come operaio a giornata, alcuni giorni nell’edilizia, altri in un magazzino o come custode.
Ma ora sono bloccati nella stanza che dividono con i loro tre figli piccoli, senza risparmi e con poche prospettive di guadagno. E anche se Aleydi avesse osato sgattaiolare fuori a vendere caramelle all’incrocio, le strade di Lima sono così spoglie che difficilmente riuscirebbe a vendere molto.
“In Perù, speravo di ricominciare la mia vita e di aprire una piccola panetteria”, ha detto. “Ora sono disperata. Voglio solo racimolare un po’ di soldi per poter tornare in Venezuela, perché ho paura per la nonna dei miei figli. Sono tre mesi che non riesco a mandarle dei soldi e ho paura che non mangi”.
“Non abbiamo niente nè qua nè là, ma almeno ci sarei io con lei”, ha detto Aleydi.
L’UNHCR sta lavorando in tutta l’America Latina e nel mondo per fornire assistenza d’emergenza ai rifugiati, ai richiedenti asilo e agli sfollati interni colpiti dalla pandemia, fornendo spazi sicuri nei rifugi e, nei casi più vulnerabili, assistenza in denaro per aiutare le persone a coprire i loro bisogni primari in modo da non dover scegliere tra la protezione della loro salute – e delle loro comunità – e la morte per fame. L’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati sta anche unendo le forze con i governi ospitanti per promuovere l’inclusione di rifugiati e migranti nei programmi di sostegno in corso.
Il sostegno tempestivo e flessibile da parte dei governi, del settore privato e dei singoli individui per le operazioni umanitarie in corso rimane fondamentale. Il piano di risposta per i rifugiati e i migranti venezuelani è pericolosamente sottofinanziato, con solo il 4% dei fondi richiesti ricevuti finora.
“La pandemia espone i rifugiati e i migranti venezuelani a difficoltà ancora maggiori, dato che molti stanno lottando per sopravvivere lontano da casa”, ha detto Eduardo Stein, Rappresentante speciale congiunto UNHCR-IOM per i rifugiati e i migranti venezuelani, in un appello per ulteriori finanziamenti.
“I venezuelani di tutta la regione devono ora affrontare la fame, la mancanza di accesso alle cure mediche, la prospettiva di diventare senzatetto e la xenofobia”, ha aggiunto.
Tuttavia, alcuni rifugiati sono riusciti ad adattarsi in mezzo all’incertezza. Come Yilmary, una terapista venezuelana di 37 anni che si è reinventata come venditrice di cibo da strada dopo essere arrivata nella megalopoli brasiliana di San Paolo nel 2016. Anche con l’ordine di restare a casa, riesce a mantenere a galla la sua attività a Tentaciones da Venezuela.
Cambiando il suo menu, orientandosi verso la pubblicità su internet e utilizzando un servizio di ordinazione e consegna online, Yilmary ha continuato a servire piatti tipici venezuelani.
“Non è facile per nessuno, né per i brasiliani né per i rifugiati”, ha detto. “Ma insieme possiamo affrontare questa sfida”.
Report di Ángela Hurtado a Medellín, Colombia; Jaime Giménez a Quito, Ecuador; Danielle Álvarez a Lima, Perù; Miguel Pachioni a San Paolo, Brasile. Scritto da Jenny Barchfield.
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