L’UNHCR ha più di 11.500 dipendenti, la maggior parte dei quali lavora sul campo. Lei è Keiko Odashiro, Funzionaria responsabile per l’etica, e protegge i rifugiati dallo sfruttamento e dagli abusi sessuali.
Nome: Keiko Odashiro, giapponese.
Posizione: Funzionaria responsabile per l’etica, esperta nella protezione dallo sfruttamento e abusi sessuali. Lavora da più di cinque anni con l’UNHCR, in Uganda, Sud Sudan e Svizzera. Attualmente è a Ginevra.
Prima di andare al college, sono partita per un viaggio nel sud-est asiatico, con lo zaino in spalla.
Nel complesso del tempio di Angkor Wat in Cambogia, ho incontrato una bambina di circa sei anni che chiedeva l’elemosina nella strada principale. Non aveva mani né piedi e probabilmente era stata mutilata dai suoi genitori. Quando mi ha visto, mi ha rivolto un grande, bellissimo sorriso. Ho pensato che stesse cercando di vivere e di fare del suo meglio. Ho pensato, ‘Questa ragazza ha una grande forza e potenzialità’. Incontrarla mi ha commosso. Volevo fare qualcosa per aiutarla.
Successivamente lungo il viaggio, ho incontrato un operatore umanitario che aveva creato a Phnom Penh una scuola per i bambini che non potevano permettersi di pagare per ricevere un’istruzione. Stava facendo qualcosa di costruttivo e ho pensato, ‘Questo è quello che voglio fare’. Mi ha fatto desiderare di lavorare nel campo umanitario.
Dopo essermi laureata, ho co-fondato una ONG che lavora con bambini e sopravvissuti alla tratta di esseri umani nelle Isole Marianne, nell’Oceano Pacifico. Ho iniziato a lavorare con l’UNHCR nel 2013 in Uganda. Successivamente ho lavorato nel Sud Sudan, ed infine sono arrivata a Ginevra.
Sono stata assunta dall’UNHCR per lavorare sulla protezione dallo sfruttamento e abuso sessuale, o PSEA. Questo è un segnale positivo in un campo in cui c’è bisogno di fare di più.
Operiamo in 128 paesi in tutto il mondo e ad ogni ufficio viene chiesto di creare un Senior focal point PSEA, per portare avanti l’agenda. Per fare la differenza.
Ogni giorno costruiamo la fiducia dei rifugiati per cui lavoriamo. Lo sfruttamento sessuale e gli abusi non sono tollerati e costituiscono un tradimento delle persone per cui lavoriamo. Dobbiamo assicurarci che sappiano che è sbagliato se qualcuno chiede loro favori sessuali in cambio della registrazione, di aiuti o con la promessa che saranno reinsediati. Hanno bisogno di conoscere i loro diritti. Devono anche conoscere il meccanismo per segnalarci gli abusi, in modo che possiamo prendere le misure appropriate.
Immagina che la tua vita dipenda dall’aiuto di operatori umanitari o dalle ONG, che ti forniscono cibo, riparo e assistenza di base. Quando c’è un abuso, penserai: “Segnalarlo aiuterà me e la mia famiglia o non farà altro che arrecare ulteriore danno?’
La maggior parte delle segnalazioni che riceviamo vengono da donne e ragazze. Lavoriamo anche con persone lesbiche, gay, bisessuali e transessuali.
Una delle sfide che affrontiamo è fare in modo che alcuni gruppi, come uomini e ragazzi, segnalino gli abusi. Le persone di sesso maschile sopravvissute ad abusi non si fanno avanti. Se cresci in un contesto culturale in cui gli uomini non piangono, essere abusato non è solo una vergogna per te, ma anche per la tua famiglia. Dobbiamo cambiare questa cultura. Siamo di fronte a un grande muro. Di certo non si può rompere in un giorno, ma stiamo facendo progressi e dobbiamo avere speranza nel fatto che possiamo fare la differenza.
Questo è l’anno di Me Too. La violenza di genere non ha mai ricevuto abbastanza attenzione, e tutta l’attenzione dei media con Me Too è positiva. Dobbiamo sfruttarla.
Abbiamo avuto un grosso problema con il matrimonio infantile in Sud Sudan.
Una ragazzina di circa 12 anni fu rapita per strada, violentata e riportata dai suoi genitori dopo alcuni giorni. Era in pessime condizioni. Era incinta, sanguinava e aveva bisogno di cure mediche immediate, ma i suoi genitori non le permettevano di andare in clinica.
Abbiamo cercato di parlare con la famiglia, ma non volevano avere a che fare con noi. Era ancora più complicato per il fatto che erano armati, cosa comune nel nord del paese. Ci hanno detto: “Questo non è un vostro problema, è nostra figlia”.
Volevamo assicurarci che la bambina ricevesse cure mediche. Avevamo anche un team di gestione dei casi, che avrebbe potuto assicurarsi che si stesse riprendendo e andasse a scuola. Ad oggi non sappiamo se è morta o se è sopravvissuta.
A quell’età, 12 anni, restare incinta vuole dire che la tua infanzia finisce, perchè diventi madre. Non riceverai più un’istruzione, le tue opzioni sono molto limitate e c’è una probabilità più alta che diventi vittima di violenza domestica.
Mi sono sentita davvero impotente. Continuavo a chiedermi perché. Perché è successo a una bambina? Quella ragazza avrebbe potuto diventare un dottore. Avrebbe potuto salvare molte persone. O essere un insegnante, un modello per altre. Avrebbe potuto essere un ingegnere. Quella ragazza avrebbe potuto essere presidente del paese.
Affrontare la violenza sessuale e di genere richiede un cambiamento comportamentale, un cambiamento di mentalità. Quando ho iniziato a lavorare nel Sud Sudan, era un tabù parlare di stupro e di matrimonio infantile, ma le cose stanno lentamente cambiando.
C’è stato un giorno in Sud Sudan in cui mi sono resa conto del nostro impatto: una ragazza è sfuggita a un matrimonio forzato ed è corsa da noi in cerca di aiuto.
Aveva 13 o 14 anni. Prima è andata a casa del leader della comunità, che ne ha parlato con noi dell’UNHCR. Con l’aiuto del nostro staff nazionale, che guida il processo di cambiamento nel paese, abbiamo organizzato la mediazione con la famiglia.
Alla fine la ragazza è andata a scuola e ha partecipato agli incontri di mediazione con i suoi genitori e i leader della comunità. Poi un giorno durante un incontro, disse con voce chiara e in inglese, davanti a tutti, “Non voglio sposarmi”. Stavamo piangendo. Il leader della comunità stava piangendo. Ho solo pensato, “Sì! Ce l’ha fatta!”
Lei va ancora a scuola. La sua famiglia è stata d’accordo sul fatto che dovesse decidere a 18 anni se sposarsi o meno.
Poi si è sparsa la voce, e altre ragazze nella sua situazione si sono trovate ad avere una sorta di rete di protezione. Sapevano dove andare a chiedere aiuto. E sempre più ragazze hanno iniziato a venire da noi.
Come mi sento al riguardo? Penso che sia grandioso.
L’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati lavora in 128 paesi aiutando uomini, donne e bambini costretti a fuggire dalle loro case a causa di guerre e persecuzioni. Il nostro quartier generale è a Ginevra, ma l’87% del nostro staff lavora sul campo, aiutando i rifugiati. Qui puoi ascoltare il nostro podcast su ciò che serve per essere un operatore umanitario in alcuni dei luoghi più difficili del mondo.
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