L’UNHCR sollecita il rilascio di documenti d’identità a donne e ragazze in Sudafrica per ridurre il rischio di apolidia e di abusi fisici e psicologici.
Bonisiwe è tormentata da un incubo ricorrente su Sipho, suo ex compagno che, armato di coltello, ha sottoposto lei e il loro bambino ad anni di abusi psicologici e fisici. Sono passati vent’anni da quella terribile esperienza, ma i ricordi sono ancora vividi.
“Lo ricordo come se fosse ieri”, mormora la donna, 52 anni, mentre racconta di come Sipho tornasse a casa di cattivo umore e criticasse tutto ciò che faceva.
“Mi schiaffeggiava con tale violenza da farmi barcollare. Poi mi prendeva a pugni e mi gettava a terra” aggiunge.
L’ultima volta che l’ha aggredita, ha estratto un coltello. Questo è stato l’episodio che l’ha convinta a legarsi il piccolo S’phamandla alla schiena e a fuggire nel cuore della notte, rifugiandosi sotto un camion abbandonato in una vicina discarica.
Bonisiwe ha trascorso la maggior parte della sua vita adulta passando da una relazione abusiva all’altra – un circolo vizioso che attribuisce alla mancanza di documenti d’identità e al fatto che, legalmente, non esiste.
È nata nella baraccopoli di KwaMashu, a Durban. La madre, sola e malata, non l’ha registrata e non ha potuto mandarla a scuola.
“Dopo due anni di scuola elementare ho dovuto abbandonare gli studi per occuparmi di mia madre malata. Non avevamo nulla e dipendevamo dal sostegno dei nostri vicini” racconta.
La sua prima relazione abusiva è iniziata quando aveva diciassette anni, con un uomo di trenta da cui ha avuto un figlio, Mthokozisi.
“Mi dava della stupida analfabeta, dicendomi che nessun uomo mi avrebbe voluta perché ero brutta, e che lui mi stava facendo un favore” aggiunge.
La sua situazione è simile a quella di migliaia di donne in Sudafrica e nel mondo.
Secondo UN Women, nel mondo una donna su tre subisce violenza fisica, psicologica e sessuale, per lo più inflitta da un partner. La situazione si aggrava per le donne che, come Bonisiwe, non hanno documenti e spesso sono riluttanti a denunciare gli abusi alle autorità per timore di essere arrestate, discriminate o sottoposte a ulteriori maltrattamenti. Senza documenti che ne attestino la cittadinanza, non hanno accesso alle misure di protezione del governo nel Paese in cui vivono, né possono avviare azioni legali come un qualunque cittadino in possesso di documenti di identità.
In Sudafrica, l’UNHCR, l’Agenzia ONU per i Rifugiati, sostiene con forza la necessità di affrontare le cause profonde della violenza di genere, una delle quali è la mancanza di documenti.
“Le conseguenze di ogni parola crudele, di ogni schiaffo o pugno e della mancanza di documentazione sono profonde” afferma Laura Buffoni, Responsabile senior della protezione a livello comunitario per l’UNHCR con sede a Pretoria.
Bonisiwe ammette di non aver avuto altra scelta se non quella di rimanere con il padre violento del figlio, che li manteneva. Alla fine però è scappata con Mthokozisi, di appena due anni, e si è trasferita a Pretoria presso una cugina.
“Speravo di trovare opportunità per una vita migliore e pensavo che avrei avuto maggiori possibilità di ottenere documenti legali” spiega.
Invece, la sua vita è stata costellata di frustrazioni e delusioni. Poco dopo il trasferimento, è stata cacciata di casa a seguito di una discussione con la cugina e si è ritrovata ancora una volta in una relazione abusiva.
Nel 2018, Bonisiwe aveva cinque figli da padri diversi. La sua situazione è stata portata all’attenzione degli assistenti sociali di Mamelodi, la township di Pretoria dove vive.
“Era profondamente traumatizzata” racconta Nomsa, una delle assistenti sociali che si occupano del caso. “L’impossibilità di ottenere un certificato di nascita ha solo peggiorato la sua situazione”.
Lawyers for Human Rights (LHR), partner dell’UNHCR, ha istituito un’Unità per l’Apolidia nel 2011 dopo aver constatato un aumento del numero di persone bisognose di consulenza legale per ottenere la cittadinanza.
Attraverso assistenza legale, contenziosi strategici, azioni di advocacy e formazione, LHR ha fornito agli operatori sociali della comunità informazioni essenziali e conoscenze dei processi legali e delle procedure per assistere i propri clienti.
“Abbiamo accompagnato Bonisiwe al Dipartimento degli Affari Interni (DHA), che ha sede a Pretoria e a Durban, in ben otto occasioni. Lì, deve richiedere la registrazione tardiva della nascita (LRB)” aggiunge Nomsa, sottolineando come il processo sia molto complesso.
Per dimostrare di avere diritto alla cittadinanza sudafricana, Bonisiwe deve presentare una serie di documenti, tra cui un modulo di notifica della nascita, una giustificazione per la LRB, i suoi dati biometrici, le impronte digitali e i documenti d’identità dei genitori. Passaggi piuttosto difficili, in quanto, a conferma della sua nascita, Bonisiwe possiede solo una lettera firmata dall’autorità tradizionale del luogo e non ha familiari che possano sottoporsi al test del DNA per dimostrarne l’identità.
“Ho provato di tutto. Sono bloccata. Ho solo voglia di arrendermi” racconta in lacrime la donna, che ha persino contemplato il suicidio.
Nomsa sottolinea che la sua organizzazione non si è arresa.
“Continueremo a lavorare con Bonisiwe e la sosterremo per completare il processo”, dichiara.
Secondo Buffoni, tali sforzi collettivi e coordinati per affrontare questo problema diffuso possono contribuire a proteggere le donne dal rischio di abusi e violenze.
“Esortiamo il governo a prestare particolare attenzione a questa situazione, perché può cambiare le cose” afferma.
Attualmente Bonisiwe vive con tre dei suoi figli in un’angusta baracca di una stanza e dipende economicamente dai due figli maggiori, Mthokozisi e S’phamandla, che fanno lavori saltuari.
“La vita è dura, ma me la caverò” conclude. “Spero un giorno di ottenere i documenti necessari per poter vivere con dignità”.
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