Se un conflitto distruggesse il tuo paese e ti costringesse a fuggire per salvarti la vita, cosa porteresti con te?
Hanno attraversato foreste, montagne e fiumi camminando per giorni, hanno intrapreso viaggi pericolosi per raggiungere la salvezza. Qui, 11 rifugiati Rohingya ci dicono cosa significa di più al mondo per loro.
Il fotografo Brian Sokol, che ha lavorato con lo staff dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) in tutto il mondo, ha posto la stessa domanda a centinaia di persone che sono state costrette a fuggire dalle loro case. Qual è la cosa più importante che hai portato con te?
Il progetto fotografico che ne è risultato, “La cosa più importante” (“The Most Important Thing”), offre risposte sorprendenti e ponderate. In questa mostra, Sokol si concentra sui rifugiati Rohingya che sono fuggiti in Bangladesh.
L’ultimo esodo è iniziato il 25 agosto 2017, quando nello stato di Rakhine, in Myanmar, è scoppiata la violenza. Da allora più di 700mila Rohingya sono arrivati in Bangladesh. Nella maggior parte dei casi si tratta di donne e bambini; altri sono anziani che hanno bisogno di ulteriori forme di aiuto e protezione. In molti raccontano di essere stati vittime di violenza estrema. Alcuni possiedono ancora gli oggetti che hanno preso con sé quando sono fuggiti, dopo averli salvati come ricordi dei propri cari o di uno stile di vita che si sono lasciati alle spalle.
Tra i soggetti già coinvolti in passato in questo progetto ci sono i rifugiati maliani in Burkina Faso; i rifugiati siriani in Turchia, Libano e Giordania; i sudanesi in Sud Sudan; e i rifugiati centrafricani e angolani nella Repubblica Democratica del Congo.
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Noor
“Se dobbiamo morire, moriremo insieme”.
Alla fine di agosto 2017, mentre le case vicine bruciavano, Noor è fuggita nell’oscurità insieme ai suoi sei figli. “Se dobbiamo morire, moriremo insieme”, ha detto ai suoi bambini. Mentre correvano senza portare nulla con sé, i vicini che stavano fuggendo insieme a loro sono stati fucilati e uccisi. Improvvisamente, c’è stato un colpo fortissimo e Noor si è voltata e ha visto sua figlia Roshida, di soli sette anni, che giaceva a terra. A pochi metri di distanza c’erano il piede della bambina e la metà inferiore della sua gamba. Il petto si sollevava a malapena e dalla sua bocca usciva appena un lieve respiro. Ci è voluto un mese, passando da un villaggio all’altro, prima che riuscissero a raggiungere il Bangladesh. “È stato così difficile che non abbiamo parole per spiegarlo”, dice Noor. “La più grande perdita che abbiamo subito è la sua gamba. E il regalo più importante che ci è stato dato è la sua vita – è il suono della sua voce”.
Omar, 102 anni
“Se non avessi avuto il mio lati, in Bangladesh ci sarei arrivato strisciando”.
La cosa più importante che Omar, un uomo cieco di 102 anni, ha portato con sé è il suo lati ovvero il suo bastone. Lui e gli altri abitanti del suo villaggio sono fuggiti dalle loro case dopo aver assistito a un orribile attacco al villaggio vicino e a diversi brutali omicidi. Durante il viaggio Omar si è fatto strada seguendo le voci degli altri rifugiati e usando il suo lati. A un certo punto, dopo essere saltato giù dalla barca di un pescatore, si è perso in una foresta di mangrovie per sette ore, con l’acqua fino al collo. Piange mentre racconta la sua storia straziante. Alla fine ha trovato la strada per arrivare a riva, ma era esausto dopo una simile prova. Omar dice che lasciare il suo villaggio è stata la cosa più difficile che abbia mai fatto, ma ora che è al sicuro e si è riunito alla sua famiglia, è felice e in pace. “Se ridi, gli altri rideranno con te. E se smetti di ridere, morirai”.
Nuras, 25 anni
La cosa più importante che Nuras ha portato con sé nella fuga dal Myanmar è un bambino che ha trovato mentre fuggiva da un attacco al suo villaggio.
Dopo che i suoi vicini sono stati uccisi, la venticinquenne Nuras e i suoi quattro figli sono fuggiti mentre venivano inseguiti e attaccati da colpi di armi da fuoco. Mentre correva, Nuras ha sentito un bambino piangere e tossire nelle vicinanze. Lo ha trovato che si sbracciava vicino ai corpi di due persone Rohingya, prive di vita, in una risaia secca e lontana. “Forse Allah mi ha dato un dono per proteggere me e i miei figli durante questo viaggio”, ha pensato. Con il bambino in braccio, Nuras ha camminato con i suoi bambini tutto il giorno e alla fine è arrivata al confine del Bangladesh, dove il marito, che l’aveva preceduta, la stava aspettando. Nell’insediamento ha cercato la famiglia del bambino, ma quando nessuno lo ha reclamato, lei e suo marito hanno deciso di chiamarlo Mohammed Hasan, il nome del nipote del profeta Maometto. Sperano che Mohammed diventerà un uomo forte e che un giorno sarà un insegnante di religione.
Jamir, 15 anni
“Se sono in difficoltà, forse non nessuno verrà ad aiutarmi. Ma Shikari verrà sempre”.
Il quindicenne Jamir raggiunge il suo cane Shikari, al di fuori del piccolo negozio che la sua famiglia gestisce in un insediamento di rifugiati nel sud del Bangladesh. “Shikari è la cosa più importante che viene dal Myanmar, perché è il mio migliore amico e il mio protettore,” afferma Jamir. Jamir, la cui famiglia è fuggita dal Myanmar 28 anni fa, è nato nell’insediamento e non ha mai messo piede in Myanmar. Ha visto per la prima volta il cane lo scorso autunno, poco dopo che era arrivato dal Myanmar insieme a un rifugiato Rohingya. Quando l’animale si è avvicinato a lui e gli ha annusato il piede, Jamir gli ha gettato un pezzo di cibo. Quando il cane è saltato in aria per afferrarlo, Jamir lo ha chiamato Shikari, che significa “cacciatore”. Da allora il giovane e il suo cane sono diventati inseparabili. Shikari dorme persino fuori dalla porta del negozio di famiglia dove Jamir trascorre la notte. “Shikari e io andremo a casa in Myanmar, Inshallah”, dice.
Kalima, 20 anni
Kalima, che ancora lotta con i ricordi del massacro, dice che per lei non conta più nulla dopo le inenarrabili perdite che ha subito in Myanmar.
“Non so perché Allah non mi ha lasciato morire”, dice la ventenne in lacrime. Era sposata da appena tre mesi quando gli aggressori sono arrivati nel suo villaggio, bruciando case e aprendo il fuoco contro la gente. Circondata da uomini armati, Kalima ha guardato, terrorizzata, i neonati che venivano gettati in acqua e altri gruppi di bambini che venivano dati alle fiamme. Il marito e la sorellina di Kalima sono stati fucilati. Lei è stata brutalmente picchiata e violentata da più uomini, prima di perdere i sensi. Quando si è svegliata, la casa era in fiamme. È fuggita, camminando per tre giorni con suo zio e suo cugino fino al Bangladesh. Una volta Kalima era una sarta e le piacerebbe molto riprendere a cucire. Alla domanda su quale sia il capo di abbigliamento che ama di più cucire, si trasforma dalla figura dolente e ricurva su sé stessa a una giovane donna sicura e composta. “Qualsiasi cosa di cui tu abbia bisogno!”, dice sorridendo.
Mohammed, 26 anni
La cosa più importante che Mohammed ha portato con sé in Bangladesh sono i suoi certificati scolastici, che sono richiesti per qualsiasi lavoro formale in patria.
Mohammed, 26 anni, era l’unica persona del suo villaggio a studiare all’università. Il giovane aveva quasi ottenuto una laurea in inglese quando ai Rohingya è stato vietato di frequentare la Sittwe University di Myanmar. Ritornato nel suo villaggio, ha trovato lavoro con l’organizzazione umanitaria CARE e ha concentrato le sue energie nell’aiutare le persone. Dopo che un villaggio vicino è stato attaccato e Mohammed non è riuscito a salvare un bambino di 10 anni che era stato immerso nella benzina e dato alle fiamme, ha infilato i suoi certificati scolastici, il suo laptop e un cambio di vestiti in una borsa ed è fuggito. Poco dopo, il suo villaggio è stato incendiato, le donne stuprate da una banda e gli uomini uccisi. “Qui, non mi sento bene”, dice. “In Myanmar, avevo una casa grande, acqua pulita e un buon lavoro. Voglio tornare indietro, ma non lo farò a meno che non ci venga concessa la cittadinanza”.
Noor, 50 anni
L’unica cosa che Noor si è portato con sé nella fuga erano gli abiti che indossava quel giorno: una sottana avvolgente conosciuta col nome di lunghi.
In Myanmar, il governo non permette ai Rohingya di diventare medici. Ma Noor ha studiato all’estero ed era determinato a curare le malattie che affliggevano la sua comunità in patria, tra cui la febbre e la dissenteria. “La gente veniva ogni giorno per essere curata perché sono onesto e li trattavo con amore”, ricorda. Quando sono iniziati gli attacchi al suo villaggio, ha curato innumerevoli persone sopravvissute a stupri e percosse. È stato arrestato ripetutamente e spesso sanzionato. Nell’agosto 2017, quando le case bruciavano in un villaggio vicino, è fuggito con sua moglie e i loro otto figli. Ci sono voluti 15 giorni per raggiungere il campo di rifugiati in Bangladesh. L’unica cosa che ha portato con sé è stata la sottana a portafoglio che indossava quel giorno. “Quando lo vedo mi manca il mio paese, la mia casa e la mia vita precedente”, dice. “È il lunghi che indosserò quando tornerò in Myanmar”.
Shahina, 5 anni
La cosa più importante che Shahina di cinque anni avrebbe portato da casa se fosse dovuta fuggire è la sua borsa di stoffa blu piena di prodotti di bellezza.
La bambina dice che questi oggetti la fanno sentire bella e che ama vedere le ragazze Rohingya più grandi che si truccano. Quando è iniziato l’ultimo flusso di Rohingya in fuga dal Myanmar, la madre di Shahina, Nosina, era molto sollevata dal sapere che i suoi figli erano già al sicuro in Bangladesh. È fuggita dal suo villaggio in Myanmar sette anni fa con i suoi due bambini più piccoli. Shahina, la più giovane, è nata in Bangladesh. Shahina, che posa davanti al rifugio della famiglia insieme alla sorella Rabiaa di otto anni, dice che quando crescerà vorrebbe diventare un’insegnante di danza.
Hafaja, 60 anni
C’è stato appena il tempo di afferrare un pannello solare e gridare per farsi sentire dai suoi figli, quattro maschi e una femmina, prima che gli aggressori aprissero il fuoco.
Hafaja, 60 anni, era fuori casa quando gli aggressori sono arrivati nel suo villaggio, nello stato di Rakhine, in Myanmar. “Se avessi avuto anche solo un minuto per scegliere qualcos’altro, avrei portato i nostri soldi”, dice. “Avevamo 500.000 kyat (circa 375 USD) che erano i nostri risparmi di famiglia, ma sono andati persi”. Hafaja ha guardato la sua casa bruciare da una foresta vicina, attraverso un campo disseminato dai corpi dei suoi vicini che non erano riusciti a fuggire in tempo. Ha poi camminato per tre giorni con il pannello in una mano e un bastone nell’altra. “Il pannello solare è importante perché quando arriva la notte, la luce mi permette di pregare e cucinare”, dice dal Bangladesh dove si trova ora. “Quando la luce è accesa, mi sento più sicuro. Ho perso la mia terra, i miei soldi e la mia casa, ma non importa. Ho ancora mio marito e i miei figli. Altri non sono stati così fortunati”.
Mohammed, 44 anni
La cosa più importante che Mohammed ha portato con sé dal Myanmar sono i suoi documenti sull’uso della terra.
Prima di essere costretto a fuggire da un attacco contro la sua casa, Mohammed era il capo del suo villaggio e aveva una rigogliosa fattoria di 100 kani (132 acri) che comprendeva una grande casa di famiglia, due laghi, una risaia, verdure e diverse mucche, polli e capre. Oggi, il 44enne vive in un insediamento di rifugiati nel sud del Bangladesh senza cibo sufficiente per sfamare la sua famiglia. La cosa più importante che Mohammed ha portato con sé dal Myanmar sono i suoi documenti sull’uso della terra. In quanto Rohingya, questi documenti mostravano che era autorizzato a usare la terra. “Ritorneremo, ricostruiremo e saremo di nuovo produttivi”, afferma. “Se tornerò in Myanmar e dovrò dimostrare dove si trova la mia terra, questi documenti saranno di grande aiuto”. Mohammed dice che tornerà solo quando i Rohingya saranno considerati uno dei gruppi etnici ufficiali della Birmania e avranno diritto alla cittadinanza.
Yacoub, 15 anni
La catena attorno al collo di Yacoub, un ragazzo di 15 anni, è l’unica cosa che gli è rimasta in ricordo di suo padre.
L’ultima volta che hanno parlato, era mattina presto e l’uomo stava andando a prendere la legna per il fuoco. Quello stesso giorno, c’è stato un brutale attacco al villaggio di Yacoub. Quando ha visto la sua casa che ardeva tra le fiamme, Yacoub, che aveva perso sua madre di parto quando aveva otto anni, ha preso per mano le sue due sorelline e si è messo a correre a piedi nudi nella giungla. Sono rimasti nascosti per 15 giorni, vivendo con biscotti e tè portati dalla bottega dello zio e in seguito raccogliendo mele. Yacoub ha comprato la sua collana in un mercato in Myanmar cinque mesi fa con i soldi che suo padre gli aveva regalato. Il ragazzo ora vive da solo in una tenda, con il suo nuovo cucciolo Sitara, un materassino e una coperta. Sua zia, suo zio e le sue sorelle vivono nella casa accanto. Nessuno sa che fine abbia fatto suo padre.
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