Cinque anni dopo la fuga di 700.000 Rohingya in Bangladesh e un decennio dopo che la violenza intercomunitaria ha scosso lo Stato di Rakhine, chi è rimasto in Myanmar vive in uno stato di limbo.
Nel 2012, scontri intercomunitari hanno sconvolto lo Stato di Rakhine. All’epoca Za Beda aveva 17 anni e aveva appena messo su famiglia. Insieme a decine di migliaia di altre persone, fu costretta a fuggire.
Un decennio dopo, oltre 153.000 Rohingya come lei sono ancora sfollati, la maggior parte dei quali confinati nei campi. Altri 447.000 vivono in villaggi dove hanno poca libertà di movimento, con conseguenze sulla loro capacità di ottenere assistenza sanitaria, frequentare la scuola o guadagnarsi da vivere. Altri 700.000 Rohingya sono fuggiti da un’ulteriore ondata di violenza nel 2017 e ora vivono come rifugiati in Bangladesh e in altre parti della regione.
Le restrizioni sullo spazio che i campi per sfollati possono occupare hanno fatto sì che molti di essi non siano in grado di espandersi per accogliere la popolazione in crescita. Vivere in un campo affollato, con servizi igienici limitati e una famiglia in crescita ha portato difficoltà a Za Beda. “Ho difficoltà a dormire perché non c’è abbastanza spazio per noi otto nel nostro rifugio. Spesso vado a dormire a casa del mio vicino”, racconta.
L’accesso all’assistenza sanitaria è un’ulteriore sfida. Ora che sta affrontando una gravidanza difficile con il suo terzo figlio, Za Beda non vuole ricorrere alle cure mediche a causa di un processo amministrativo macchinoso e costoso che richiede l’approvazione degli amministratori locali, la presenza di uomini di scorta e l’attraversamento di posti di blocco dove l’estorsione è comune.
“Mi arrabbio quando si verificano complicazioni durante il parto”, dice Hassinah Begom, un’ostetrica che si occupa delle esigenze di Za Beda e di altre donne incinte del campo. Nonostante non abbia ricevuto alcuna formazione formale, ha fatto nascere con successo oltre 500 bambini nel corso dei suoi due decenni di carriera ed è spesso la prima persona a cui le madri si rivolgono quando hanno bisogno di assistenza.
“Nei casi più gravi, devo accompagnarle rapidamente in ospedale. Non possiamo andarcene se sono passate le 18.00 a causa del coprifuoco. Quando andiamo, solo una persona può accompagnare la paziente e non possiamo portare i nostri telefoni. Paghiamo anche prezzi più alti per le medicine”, dice Begom. “Per fortuna nessuna madre è morta sotto le mie cure”.
Per migliorare le condizioni di vita e sanare le ferite storiche, l’UNHCR, l’Agenzia ONU per i Rifugiati, e i suoi partner hanno sostenuto i Rohingya, i Rakhine e le altre comunità sfollate nello Stato di Rakhine attraverso la distribuzione di articoli per la casa, la ricostruzione di alloggi, il sostegno ai mezzi di sussistenza e i servizi. Tale assistenza mira a ridurre le vulnerabilità, come la violenza di genere, e a promuovere il dialogo tra le diverse comunità.
Tuttavia, politiche come la negazione di un accesso paritario alla cittadinanza e ai servizi essenziali, nonché le restrizioni di movimento, hanno mantenuto i Rohingya emarginati e fortemente dipendenti dagli aiuti umanitari. “Nessuna quantità di aiuti è sufficiente a risolvere la crisi”, afferma Federico Sersale, capo ufficio dell’UNHCR a Sittwe, la capitale dello Stato di Rakhine. “Sebbene sia imperativo prestare assistenza, l’accesso ai diritti e alle libertà, la coesione sociale tra le comunità, la chiusura dei campi e la possibilità per i Rohingya di tornare alle loro case o ai luoghi di loro scelta sono cruciali per soluzioni durature”.
Per le donne che vivono nei campi, le preoccupazioni non finiscono dopo aver partorito con poca o nessuna assistenza medica. I bambini Rohingya raramente ottengono un certificato di nascita, un documento fondamentale che fornisce loro un’identità legale.
La seconda figlia di Za Beda, nata nel campo, non ha mai ricevuto un certificato di nascita. Il suo primogenito ne aveva uno, ma è andato perso durante il caos della fuga nel 2012. “Ho cercato in molti modi di ottenerne uno nuovo per lui, ma è stato impossibile”, dice.
“Mi rattrista che nessuno dei bambini nati qui abbia un certificato di nascita. Nessuno può crescere con successo senza un certificato di nascita”, dice Begom.
Determinata ad aiutare nel miglior modo possibile, Begom ha registrato diligentemente la data di nascita di ogni bambino che ha fatto nascere. “Il mio desiderio è che questi registri aiutino i bambini a ottenere un giorno i documenti d’identità”, dice.
Limitare l’accesso dei Rohingya a documenti civili come i certificati di nascita ha conseguenze a lungo termine. Quando i bambini crescono, non sono in grado di acquisire altri importanti documenti d’identità, come le carte di registrazione nazionali, lasciandoli invisibili dal punto di vista legale e amministrativo. Questo a sua volta mette a rischio le loro prospettive future, limita la loro libertà di movimento e li intrappola in un ciclo di povertà ed emarginazione.
“Più a lungo persiste questa situazione, più le comunità Rohingya diventano vulnerabili ed emarginate. Ciò ridurrà ulteriormente le prospettive per coloro che desiderano tornare in sicurezza dal Bangladesh”, afferma Federico Sersale dell’UNHCR.
Ajam Bibi, una sedicenne che vive nel campo e che Begom ha aiutato a nascere, ha dovuto abbandonare la scuola all’età di 14 anni perché sua madre non poteva permettersi le tasse scolastiche. “Mi piace imparare. Se avrò la possibilità di completare gli studi, farò domanda per un lavoro con un’agenzia umanitaria… Al momento, faccio le faccende domestiche e aiuto i miei fratelli più piccoli a studiare”, dice.
Mentre l’istruzione primaria è spesso fornita gratuitamente dalle agenzie umanitarie all’interno dei campi, le scuole superiori gestite dallo Stato sono spesso situate lontano dai campi e segregate dalle altre comunità. Le tasse scolastiche e i costi di trasporto si aggiungono alla pressione finanziaria delle famiglie, che si trovano in difficoltà economiche, una situazione esacerbata dalla mancanza di opportunità di lavoro.
Riflettendo sulle difficoltà incontrate nella sua vita e in quella dei suoi figli, Za Beda si preoccupa per il futuro. “Mi sento triste e infelice per la situazione… Non riesco a immaginare come sarà la vita quando i bambini cresceranno”, dice.
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