I volontari e rifugiati nello Stato di Cross River in Nigeria usano informazioni verificate e i loro legami con la comunità per combattere la pericolosa disinformazione sul virus e sul vaccino.
Laban è il presidente della Great Step Initiative (GSI), un’organizzazione comunitaria che fornisce servizi di salute mentale ai rifugiati in cinque distretti dello Stato nigeriano di Cross River. Nel 2020, quando il COVID-19 si è diffuso, la loro rete di 120 volontari è entrata in azione per combattere la disinformazione che ne è seguita.
“Avevano un sacco di domande!”, ricorda Laban. All’inizio, i loro sforzi consistevano soprattutto nel convincere la gente della reale minaccia posta dal virus e della necessità di misure preventive come indossare la mascherina e lavarsi le mani. L’anno scorso la GSI è stata una delle sette organizzazioni guidate da rifugiati a vincere il Premio per l’Innovazione dell’UNHCR per il loro ruolo nella risposta alla pandemia.
Lo scorso anno, l’arrivo dei vaccini contro il COVID-19 ha aumentato le speranze di una via d’uscita dalla pandemia, ma ha anche portato nuove ondate di voci e miti.
“Non sapevamo molto [del vaccino] all’inizio”, spiega Laban, che racconta alcune delle teorie selvagge che hanno cominciato a circolare in assenza di informazioni credibili.
“Alcuni dicevano che il vaccino era una condanna a morte”, dice. “Alcuni dicono che si muore dopo 24 [o] 36 mesi, altri avevano sentito parlare di microchip nel vaccino che avrebbe collegato la persona con Lucifero, condannandola all’inferno”.
Vedendo la necessità di contrastare tali miti, Laban e i suoi colleghi volontari della GSI hanno ricevuto indicazioni e informazioni verificate sul vaccino dall’UNHCR, l’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati, per aiutarli a combattere la disinformazione e a rispondere alle molte domande della gente.
Quando si tratta di contrastare lo scetticismo generale intorno al vaccino, Laban ha visto risultati utilizzando due argomenti di base. “Il mondo non si affiderebbe ad esso se fosse qualcosa che elimina l’umanità in 36 mesi”, dice, oltre a sottolineare il semplice fatto che molti hanno già ricevuto il vaccino senza incidenti.
I volontari hanno usato altre tattiche per combattere miti più specifici – per esempio che i vaccini non sono necessari perché il virus è “una cosa europea che si verifica solo in un clima freddo”. Condividono le statistiche del Centro Nazionale per il Controllo delle Malattie che mostrano che le persone in Nigeria non solo sono state infettate, ma sono anche morte a causa del COVID-19.
I loro sforzi hanno visto risultati tangibili tra i rifugiati camerunesi in Nigeria, nonostante la limitata disponibilità di dosi che hanno mantenuto bassi i tassi di vaccinazione, in linea con molti altri paesi a basso e medio reddito che ospitano rifugiati. Più di 1.800 rifugiati hanno ricevuto un’iniezione negli stati di Benue, Cross River e Taraba, oltre a circa 700 che hanno ricevuto due dosi.
Armato dei suoi dati e delle sue argomentazioni, Laban va di porta in porta negli insediamenti dei rifugiati di Adagom per intavolare conversazioni e far valere le sue ragioni. Nonostante i suoi sforzi, però, c’è ancora molto lavoro da fare.
Al mercato dell’insediamento, incontra Effemi Blessing, che gestisce un piccolo negozio di alimentari che ha aperto con la sua famiglia con il sostegno finanziario dell’UNHCR attraverso il suo partner CUSO. “Sono forte”, dice a Laban, “e non sono mai stata vaccinata, quindi ho un po’ paura [di prenderlo]”. Laban si prende il tempo per ascoltare le sue preoccupazioni e spiegare attentamente la sicurezza del vaccino nella speranza di farle cambiare idea.
Forse lo strumento più efficace a loro disposizione, tuttavia, è il fatto che i volontari della GSI fanno parte delle comunità che servono – sia i rifugiati camerunesi che i nigeriani locali – il che significa che sono figure familiari e fidate che capiscono il loro pubblico.
Uno di questi volontari è il 65enne Asu Ben Abang, un camerunese padre di sette figli che rappresenta la GSI nella Comunità 33, una sezione dell’insediamento di Adagom. Usa se stesso come esempio vivente della sicurezza e dell’efficacia del vaccino, che ha aiutato a convincere i membri della sua famiglia allargata e altri nella comunità.
“Tutti intorno a me avevano paura. Solo io ho preso il vaccino”, dice, mostrando con orgoglio la sua carta verde di vaccinazione. “Ora che hanno visto che non sono morto, i miei parenti faranno l’iniezione”.
Reportage aggiuntivo di Lucy Agiende.
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