Alberto Camastra ha sempre vissuto a Damasco, finché con l’avanzare della guerra in Siria il nonno, scomparso da tempo, gli ha offerto una via d’uscita.
Di Daniel Silas Adamson
Verso la fine della Seconda guerra mondiale, una giovane donna della Cecoslovacchia e un soldato italiano si conobbero in Sicilia, innamorandosi. Dopo poco Helen e Alfonso si sposarono a Catania, città natale di Alfonso, e fu lì che Helen concepì un figlio – uno dei tanti la cui vità iniziò nel caos e nella fuga dalla guerra.
Per ragioni da tempo sepolte o dimenticate, Helen lasciò la Sicilia prima che il bambino nascesse. Salpò su una nave diretta in Siria, dove aveva un fratello, e lì nel 1945 diede alla luce un maschietto. Quel bambino non conobbe mai suo padre, non imparò mai l’italiano, né mise mai piede in Italia. Ma fu battezzato con un nome italiano – Giuseppe Camastra – e venne registrato a Damasco come cittadino italiano.
Settant’anni dopo, quello spiraglio di discendenza italiana è diventato un’ancora di salvezza per i figli e i nipoti di Giuseppe.
Alberto and his family pose for a portrait in the room of Rena, his mother. All adult members of the family have decided to show only their backs because they fear retaliation against their families still in Syria.
Nella primavera del 2011, quando i disordini cominciavano a diffondersi in tutta la Siria, il figlio di Giuseppe, Alberto, ricevette una telefonata dall’ambasciata italiana: vuoi andare via?
Ogni italiano in Siria ha ricevuto quella chiamata. I Camastra erano sulla lista perché Alberto era stato registrato ancora come cittadino italiano, decenni dopo che suo padre aveva lasciato la Sicilia nella pancia di sua madre.
La Siria, però, era l’unico paese che Alberto avesse mai conosciuto. Andare in Italia significava diventare un rifugiato.
“Avevo paura. Ho 45 anni e non conoscevo una parola d’italiano. Dove saremmo andati a vivere in Italia? Potevamo finire per strada. Mi hanno chiamato per tre anni, ma ho sempre detto di no.”
Nell’estate del 2014, però, le cose cambiarono.
I bombardamenti e gli spari erano ormai così vicini che i bambini più piccoli di Alberto non riuscivano a dormire per la paura. “Mio figlio piangeva da tre giorni. Mia moglie era terrorizzata. Così ho detto: ‘Ok, vado’. Anche se dovessi finire per strada, tutto è meglio di questo.”
I Camastra sono stati gli ultimi italiani a lasciare il paese.
Circa un anno dopo che i Camastra erano partiti, ho incontro Alberto in un bar di Catania. La fatica degli ultimi anni è scritta sul suo volto.
Prima di lasciare la Siria Alberto ha venduto tutto quello che poteva, poi con un taxi ha portato sua moglie, sua madre e i suoi quattro figli a Beirut e da lì in aereo sono arrivati a Roma. Gli altri rifugiati siriani arrivati in Italia si dirigevano tutti al nord, verso la Germania, dove ogni anno vengono accettate centinaia di migliaia di richieste d’asilo. Alberto invece ha preso un treno verso sud, diretto in Sicilia. Stava per tornare nella città in cui era stato concepito suo padre.
Catania poteva essere la città natale anche di suo nonno, ma Alberto non aveva nessun altro legame con quel luogo. In Siria, era lui che manteneva tutta la famiglia. Qui, senza sapere una parola d’italiano, ha dovuto lottare per trovare un posto sicuro dove far dormire i suoi bambini. “Se sono da solo,” mi ha detto, “posso dormire ovunque, anche nel parco. Ma con i bambini…”
Hanno dormito per alcune notti in un hotel a buon mercato, e poi in una stanza non ammobiliata senza acqua né elettricità. Infine, Alberto ha preso in prestito quello che poteva dalla famiglia di sua moglie ancora in Siria, riuscendo ad affittare un appartamento per un anno. Poco tempo dopo, Alberto ha avuto un attacco di cuore.
Alberto gives a biscuit to his youngest daughter, on the background his wife with the second daughter.
L’ospitalità di Alberto è tuttavia sopravvissuta allo stress della guerra, e così mi ha invitato a incontrare la sua famiglia nella loro casa alla periferia occidentale della città.
La madre di Alberto, Rena, mi ha aperto la porta e mi ha mostrato l’appartamento, circondata da nipoti eccitati. La casa è in un condominio anni ’60 dall’aspetto dismesso, ma i Camastra hanno dipinto le pareti di rosa e lucidato le mattonelle del pavimento fino a farle brillare. Sulla parete del soggiorno è appesa una cornice con fotografie scattate a Damasco 50 o 60 anni fa.
Tra le foto c’è Helen, la ragazza ceca che con la sua storia d’amore siciliana in tempo di guerra ha fatto sì che questo ramo della famiglia Camastra esistesse. E ci sono anche i genitori di Rena, Vasili e Victoria, che anche se venivano dalla Grecia e dal Libano si sono sempre sentiti parte del mosaico religioso ed etnico della Siria. Queste persone hanno conosciuto il mondo del Mediterraneo come un luogo di fluidità e movimento, di matrimoni misti e di fedi eterogenee. “Quando ero giovane,” mi ha detto Rena, “non c’era una grande differenza tra l’Europa e la Siria”.
Se Rena tramanda i ricordi della famiglia, è la nipote più grande, Faten, a portarne le speranze. A Damasco si stava per laureare in legge, prima che guerra la costringesse ad abbandonare gli studi. Parla fluentemente inglese e arabo, e ora che sta imparando l’italiano da autodidatta pensa anche di ricominciare l’università. Allo stesso tempo lavora come tata per una famiglia italiana, guadagnando del denaro che ben presto servirà per l’affitto.
Le ho chiesto cosa si prova a essere di nuovo nella città che la sua bisnonna ha lasciato tanti anni fa. “La mia famiglia ha viaggiato componendo un grande cerchio, e io le sono molto grata per questo,” mi ha risposto. “Sono felice di poter parlare arabo, di poter capire la musica e la poesia della lingua araba. Tutta questa lunga storia, tutti questi paesi diversi, mi hanno reso una persona molto più profonda.”
Foto di copertina e del servizio: ©UNHCR/Fabio Bucciarelli
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