A un anno dallo scoppio del conflitto in Sudan, le violenze sessuali e altre forme di violenza sono diffuse nelle zone di conflitto e lungo le vie di fuga, mentre la mancanza di fondi ostacola la risposta dell’UNHCR.
Un anno fa, quando sono scoppiati i primi combattimenti nella capitale sudanese Khartoum, Fatima*, 39 anni, pensava che la scelta più sicura per lei e i suoi quattro figli fosse rimanere in casa. Il marito e il figlio maggiore erano scomparsi – la loro posizione è ancora sconosciuta – ma almeno avevano cibo, acqua e un posto dove ripararsi dal caos all’esterno.
Ma quel senso di sicurezza è stato crudelmente tradito quando una sera tardi tre uomini armati si sono presentati alla porta chiedendo cibo e acqua. Dopo aver avuto dell’acqua, sono andati via, ma più tardi, quella sera, uno degli uomini è tornato con il volto coperto e ha minacciato Fatima di spararla se non avesse fatto quello che le aveva detto.
“I miei figli erano tutti dentro… e avevo paura che potesse accadere loro qualcosa di brutto. Sono molto giovani”, ha detto Fatima. “Li ho chiusi dentro con il loro fratello maggiore e gli ho detto di stare zitto e che se mi fosse successo qualcosa, avrebbe dovuto prendere le sorelle e il fratello e andarsene”.
Fatima è stata violentata in tre diverse occasioni nell’arco di una settimana. Alla ricerca disperata di una via d’uscita sicura da Khartoum con i suoi figli, è venuta a conoscenza di un autobus organizzato per portare le famiglie fuori dalla città, più vicino al confine con l’Etiopia, e si è registrata per il viaggio.
Dopo due mesi di relativa sicurezza, Fatima ha scoperto di essere incinta. Determinata a lasciarsi alle spalle il Sudan e il conflitto, ha venduto l’ultimo oro che le era rimasto per pagare il viaggio della famiglia attraverso il confine con l’Etiopia.
Lei e i suoi figli vivono ora in un rifugio per famiglie in un sito sul lato etiope del confine, dove l’UNHCR, l’Agenzia dell’ONU per i Rifugiati, e i suoi partner stanno aiutando le autorità a fornire ai rifugiati assistenza e servizi. Ha ricevuto supporto psicosociale ed è stata indirizzata all’ospedale regionale per le cure mediche. Si è anche registrata presso la Croce Rossa per cercare di rintracciare il marito e il figlio maggiore.
“Qui non ci sono spari… abbiamo acqua da bere e un posto dove dormire senza la minaccia di stupri”, ha detto Fatima. “Sono incinta… Non so per quanto tempo resteremo qui senza una casa, senza una porta da chiudere per sentirci al sicuro. Ho bisogno di aiuto”.
A un anno dall’inizio del conflitto tra l’esercito sudanese e le Rapid Support Forces, più di 8,6 milioni di persone sono state cacciate dalle loro case, tra cui 6,8 milioni che vivono ora sfollati all’interno del Paese e più di 1,8 milioni di rifugiati e persone che hanno fatto ritorno nel Paese d’origine, fuggiti nei Paesi vicini.
Le donne e le ragazze sono più della metà di tutti i rifugiati registrati provenienti dal Sudan, anche se la percentuale è più alta in alcuni Paesi ospitanti. Oltre ai pericoli insiti nel conflitto e nella condizione di sfollate, le donne sono state esposte a livelli sconvolgenti di violenza sessuale, sia nelle aree di conflitto all’interno del Sudan, sia durante gli spostamenti, sia nei Paesi di asilo.
In un rapporto sulla violenza di genere durante la crisi pubblicato alla fine del 2023, l’Unhcr ha riferito che le donne e le ragazze all’interno del Sudan stanno sopportando il peso delle conseguenze del conflitto, compresi livelli “allarmanti” di violenza sessuale. Molte delle richiedenti asilo hanno subito o assistito a molestie, rapimenti, stupri, aggressioni sessuali, sfruttamento sessuale e altre forme di violenza durante il viaggio.
Salma*, 26 anni, viveva con il marito e i tre figli a El Geneina, capitale della regione sudanese del Darfur occidentale. La casa della famiglia è stata bruciata quando il conflitto ha raggiunto la città, e hanno trascorso più di una settimana rifugiandosi in edifici abbandonati nel quartiere prima di mettersi in viaggio verso il confine con il Ciad.
Prima di raggiungere il confine, il marito di Salma è stato sequestrato da un gruppo di uomini armati e lei e i suoi figli sono stati costretti a proseguire senza di lui. Poco dopo, altri quattro uomini armati hanno fermato il gruppo e hanno detto a Salma di mettere giù il bambino che portava in braccio.
“Mi hanno colpito e sono caduta”, ha raccontato Salma. “Sono svenuta e non so cosa mi abbiano fatto, ma quando ho aperto gli occhi ho visto i miei figli accanto a me [e] a parte il vestito che indossavo, non avevo più vestiti”.
La madre e uno dei suoi figli sono stati picchiati da un altro uomo che brandiva un bastone sul lato sudanese del confine, che ha rubato i soldi di Salma, due telefoni cellulari e altri effetti personali. Allafine hanno raggiunto il fiume che segna la frontiera con il Ciad, dove Salma ha guadato avanti e indietro nell’acqua fangosa e alta fino alla vita per portare in salvo i suoi figli.
La famiglia vive ora nel Ciad orientale, dove Salma si è registrata presso l’UNHCR e ha ricevuto assistenza alimentare e medica. Ma nonostante l’aiuto ricevuto, la sua situazione rimane molto difficile. Guadagna un po’ di soldi facendo lavori saltuari per i vicini, per sfamare i figli, ma soffre ancora di dolori alla schiena e all’addome in seguito all’aggressione subita.
“Devo lavorare nonostante il dolore, altrimenti chi darà da mangiare ai miei figli?”, ha chiesto. “I nostri figli dovrebbero andare a scuola per il loro futuro. Voglio solo che i miei figli vadano a scuola e siano al sicuro”.
“Prima vivevo in buone condizioni, ma da quando mio marito è stato rapito, non ho più nessuno che mi aiuti”, ha aggiunto Salma. “La gente mi ha detto che è stato ucciso, ma io non l’ho visto con i miei occhi”.
Nel 2023, l’UNHCR ha registrato un’impennata di casi di violenza di genere nel Ciad orientale, dove è arrivata la maggior parte dei rifugiati dal Sudan, più del doppio rispetto all’anno precedente. La vera portata del problema è probabilmente ancora più grave, gli incidenti spesso non vengono denunciati per il timore di stigmatizzazioni e ritorsioni – una tendenza che si ripete in altri Paesi che ospitano rifugiati dal Sudan.
Una risposta umanitaria gravemente sottofinanziata
Tutti i sopravvissuti alla violenza di genere registrati in Ciad hanno ricevuto supporto psicosociale dall’UNHCR e dai suoi partner, mentre molti hanno ricevuto anche cure mediche, assistenza legale e sostegno in denaro. Tuttavia, le dimensioni dell’emergenza e la mancanza di fondi disponibili stanno ostacolando la risposta dell’UNHCR, ha spiegato Nadine Sekaganda Mutunzi, responsabile dell’UNHCR per il Ciad orientale.
“Non ci sono abbastanza fondi per implementare i diversi servizi… per aiutare tutte le vittime e i sopravvissuti alla violenza di genere”, ha detto Mutunzi. “Qui, ad esempio, [nel Ciad orientale], ci limitiamo al minimo indispensabile. Non siamo in grado di fornire una risposta organica”, che includa misure per responsabilizzare le persone sopravvissute, ad esempio offrendo opportunità di lavoro e formazione.
Tornata in Etiopia, Fatima ha un messaggio chiaro per i leader delle fazioni in guerra del Sudan, mentre lei e i suoi figli affrontano un futuro incerto come rifugiati.
“Il mio messaggio è che smettano di combattere… che riportino la pace. Abbiamo bisogno di pace per poter tornare in Sudan, perché tutti possano tornare a casa loro”.
*I nomi sono stati cambiati per motivi di protezione
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