Nel suo nuovo libro di memorie, “Asylum”, il rifugiato nigeriano e attivista LGBTIQ+ Edafe Okporo scrive che nemmeno la detenzione e la discriminazione hanno scosso la sua fede nell’America.
Come persona gay in Nigeria, Edafe era già sopravvissuto a numerosi attacchi e discriminazioni – una volta una folla inferocita lo aveva picchiato gridando “Gay! Gay! Gay!”. Si era trasferito più volte in tutto il Paese. Ma ora non poteva più mantenere un basso profilo. Sapeva che era solo questione di tempo prima che qualcuno lo consegnasse alla polizia in nome delle severe leggi del Paese contro l’omosessualità, o peggio.
“Quello che avrebbe dovuto essere un momento di orgoglio si è rapidamente trasformato in un momento buio”, scrive nel suo libro di memorie, Asylum (Simon & Schuster 2022), pubblicato la scorsa settimana. “Questo singolo momento ha posto fine alla mia vita in Nigeria. Dovevo fuggire – il più lontano possibile”.
Edafe ha ricevuto asilo negli Stati Uniti, ma solo dopo aver trascorso più di cinque mesi in un centro di detenzione per immigrati, rinchiuso con altre persone che, come lui, speravano di ricominciare la loro vita in America. Dormivano su lastre di cemento, vedevano raramente la luce del sole e, quando si ammalavano, erano fortunati se riuscivano ad essere visitati da un medico.
Ora Edafe vive a New York con il suo compagno, che intende sposare quest’estate. Ha vinto altri premi, tra cui uno per il suo lavoro come direttore di un rifugio per senzatetto, RDJ Refugee Shelter, per persone in cerca di asilo. Di recente ha fondato un’associazione no-profit, Refugee America, per aiutare altri rifugiati LGBTIQ+. Inoltre, è diventato un ricercato scrittore e oratore sulle esperienze dei rifugiati LGBTIQ+.
Edafe si è incontrato con l’UNHCR, l’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati, per parlare del suo nuovo libro di memorie, di come gli Stati Uniti e altri Paesi possano accogliere i rifugiati e del perché questo mese – il Pride Month negli Stati Uniti – sia una celebrazione del suo viaggio personale.
L’intervista qui di seguito è stata modificata per ragioni di lunghezza e chiarezza.
Nell’ultima parte del tuo libro, chiedi alle persone di pensare al tipo di Paese in cui vorrebbero vivere. Hai detto che questa domanda ti motiva nel tuo lavoro.
Sì, credo che sia la domanda più importante. Gli Stati Uniti sono stati un Paese di rifugio, non solo per i rifugiati, ma per milioni di persone che hanno un sogno e un obiettivo: trovare una nuova vita. È solo che in questo momento la polarizzazione [politica] in America ci rende difficile essere umani ed empatici. Penso che questa sia l’America in cui vorrei vivere, ma solo più empatica. L’America è ancora uno dei posti migliori in cui si possa andare come rifugiati. È multidimensionale, è molto varia. Non c’è nessun altro posto al mondo in cui sarei potuto arrivare cinque anni fa e in cinque anni ottenere un master, trovare un fidanzato e sposarmi e avere un tetto sopra la testa. L’America mi ha dato l’opportunità di costruirmi una vita. E questa è l’America che voglio. Lasciate che le nostre storie [di rifugiati] si aggiungano alla narrazione americana.
La gente vuole che tu sia o di estrema destra o di estrema sinistra. Se non si è polarizzati, non si raggiunge il pubblico americano, perché la gente vuole ascoltare chi aderisce alle proprie opinioni. Il Paese in cui voglio stare è una via di mezzo, in cui si possano ascoltare sia le voci di destra che di sinistra.
Come ti poni come scrittore e attivista, e in realtà anche come persona, se vivi qui? In un Paese in cui non c’è questa via di mezzo, come si fa a crearla?
Penso sempre a questa domanda. Mi chiedo: mi polarizzo sempre di più solo per far sentire la mia voce? E mi dico che se tutti si spostano a destra o a sinistra perché vogliono far sentire la propria voce, il centro si assottiglia, si assottiglia sempre di più e diventa quasi invisibile. Preferisco non essere ascoltato e stare in mezzo alla strada piuttosto che aggiungere polarizzazione all’equazione.
Non attacco nessun individuo. Me ne tengo alla larga. Sono arrivato sotto l’amministrazione [Barack] Obama, poi ho ottenuto l’asilo sotto l’amministrazione [Donald] Trump. Mentre scrivevo il mio libro, ho chiarito che sia i presidenti democratici che quelli repubblicani hanno influenzato drasticamente la vita dei rifugiati. Come scrittore e attivista, la mia speranza è di poter vivere un giorno in un mondo in cui le persone che verranno dopo di me avranno voce e non dovranno lottare per far sentire la loro voce perché io ho fatto parte del lavoro. Un attivista non lotta solo per cambiare il sistema, ma per far sì che le persone facciano parte del cambiamento del sistema. Non voglio inimicarmi nessuno. Voglio lasciare un po’ di grazia alle persone.
Una delle cose di cui parli è assicurarsi che nessun altro debba affrontare la detenzione. Ma ritieni che gli Stati Uniti si stiano avvicinando a questo obiettivo? Ci sono progressi?
Sì. Penso che stiamo facendo molti progressi. Quando sono arrivato in America, avevamo la più grande detenzione di massa di immigrati. Ancora oggi, abbiamo la più grande detenzione di massa di immigrati al mondo. Ma lo Stato della California ha deciso di porre fine alle carceri private per la detenzione degli immigrati, eliminandole gradualmente entro il 2028. Nel New Jersey, dove sono stato detenuto, hanno deciso di eliminare gradualmente l’uso delle prigioni private. C’è un movimento per porre fine all’uso delle prigioni private.
Quando stavo crescendo, sognavo l’America, sempre e comunque.
La squadra di calcio nigeriana ha vinto le Olimpiadi del 1996 ad Atlanta [Georgia, Stati Uniti]. Il popolo [nigeriano] aveva la bandiera statunitense in salotto. La gente rispetta e adora gli Stati Uniti. Ma venire qui e vedere che questo Paese che pensavo fosse il paradiso tratta le persone in questo modo è stato davvero devastante. Per le persone che vengono qui a cercare protezione, è semplicemente ingiusto.
Hai già parlato con tua madre della detenzione? Quando stavi scrivendo il libro, non l’avevi ancora fatto.
Non posso. Ho paura. Credo che questa sia l’esperienza di molti rifugiati e sfollati, che devono mantenere il segreto a casa. Se avessi detto a [mia madre] che ero in un centro di detenzione che era come una prigione, mi avrebbe detto: “Che crimine hai commesso?! Stai bene?!” Andrebbe fuori di testa. Così cerco di proteggerla dal trauma che ho vissuto in America.
Nel tuo libro parli delle piccole cose che le persone hanno fatto per farti sentire il benvenuto. Hai citato il sorriso del tuo avvocato. Quali sono le piccole cose che le persone possono fare per far sentire i rifugiati benvenuti?
Credo che le piccole cose abbiano un impatto maggiore di quelle grandi. Una delle cose che ha avuto più impatto sul mio soggiorno in America è stata Sally, la mia assistente sociale. Quando sono uscito dal centro di detenzione, ero all’YMCA di Newark [New Jersey]. Lei ha una macchina. Io non so guidare. Non so prendere il treno. È venuta a prendermi e mi ha accompagnato all’ufficio della Social Security per ottenere il mio numero di previdenza sociale, perché senza non potevo fare nulla. Avrebbe potuto lasciarmi lì. So scrivere. So scrivere in inglese. Avrei potuto farlo da solo. Si è seduta con me per due ore. Abbiamo parlato e siamo passati da una riga all’altra. E mi ha detto: “So che l’America può essere molto difficile per i nuovi arrivati”. E io ho pensato: “Adoro tutto quello che sto vedendo in questo momento! Sono appena uscito da cinque mesi di detenzione. Voglio fare la fila!”. Ma, sai, ci ho pensato alla fine. Aveva un sacco di cose da fare, ma voleva solo che sentissi di avere qualcuno accanto.
Qualcuno mi ha dato un divano su cui dormire. Qualcuno mi ha dato un computer portatile per presentare le domande di lavoro. Qualcuno mi ha preparato per il mio primo colloquio di lavoro… aiutandomi un passo alla volta ad arrivare dove sono ora.
Qual è la tua speranza per questo libro? Che cosa ti aspetti che succeda dopo?
Il libro è un manifesto, ma prima di arrivare al manifesto è un libro di memorie. Voglio che la gente conosca la vita delle persone che vengono qui a cercare protezione in America. Che non sono solo le persecuzioni a renderci ciò che siamo. È anche la famiglia che lasciamo, il cibo che lasciamo, la cultura che lasciamo per venire in questo Paese a costruirci una vita.
Potrei scrivere una storia bellissima e farla finita. Ma l’ho scritta [in modo che] a ogni tema trattato, voi possiate pensare: “Wow, che azione posso intraprendere su questo particolare tema?”. Questa è la speranza che avevo quando ho scritto il libro.
Qual è stata la cosa più difficile da scrivere?
Mentre stavo editando il libro, mi sono reso conto di tutto quello che ho passato per arrivare fin qui e di come non celebri mai tutto quello che ho fatto. Parlo solo del mio dolore. Piangevo perché ero felice di aver affrontato quelle cose e che non mi avessero distrutto. Molte persone che conosco hanno passato un quarto di quello che ho passato io e non sono mai riuscite a rialzarsi. Quindi sono stato sommerso dalle emozioni. Lasciare la mia famiglia molto giovane per iniziare la mia vita. Sono stato picchiato da una folla. Sono stato in un centro di detenzione. Sono arrivato qui [e ho affrontato] il razzismo. Quanto può sopportare una persona? Ma sono riuscito comunque a costruirmi una vita.
Se dovessi rifarlo, fuggiresti dalla Nigeria per venire negli Stati Uniti?
Non c’è posto al mondo in cui preferirei essere che negli Stati Uniti d’America. Semplice, anche se ci sono cose che stanno accadendo e che per noi sono difficili da affrontare. Ma in America c’è una parvenza di progresso ogni giorno. Quindi tornerei in America in un batter d’occhio perché amo l’America.
Giugno è il mese dell’orgoglio LGBTIQ+. Il 19 giugno è Juneteenth [la festa che commemora l’emancipazione degli schiavi africani in America], il 20 giugno è la Giornata mondiale del rifugiato. Può esistere un momento in cui una persona possa essere celebrata tanto quanto lo sono io in questo momento in America [ride]? È perché gli americani progrediscono ogni giorno. E credo che possiamo realizzare il cambiamento. Dobbiamo solo impegnarci.
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