Il mare ha iniziato a ingrossarsi e Hope* [1] e le sue tre figlie si sono strette insieme su un’imbarcazione di fortuna, sovraccarica di persone. Nessuna di loro sapeva nuotare.
“Non piangere, mamma. I soccorsi stanno arrivando” Queste parole di conforto sono state le ultime pronunciate da Mercy, 10 anni.
Non appena la nave dei soccorsi è stata avvistata, il panico generatosi sull’imbarcazione che trasportava 130 persone provenienti dal Gambia e dalla Nigeria, ha trascinato al largo la barca. Gli Alcune persone vedendo la nave dei soccorsi si sono lanciate in mare, causando uno sbilanciamento dell’imbarcazione che si è capovolta.
Stringendo forte la piccola Faith, Hope è stata trascinata in acqua ed è rimasta intrappolata sotto l’imbarcazione. Cinque minuti dopo, la mano di un uomo l’ha raggiunta nell’oscurità, la afferrata e l’ha tratta in salvo sulla nave dei soccorsi.
“La mia seconda figlia era seduta lì. Le ho chiesto, ‘Dov’è Mercy?’” racconta Hope, che in Nigeria, il suo Paese d’origine, era una maestra d’asilo. “Ma l’emergenza è scattata per la piccola che non stava respirando. L’hanno trasportata sulla nave più grande e hanno provato a rianimarla ma non c’è stato niente da fare.”
“E’ per questo che ho perso minuti preziosi che avrei potuto impiegare per la mia figlia maggiore, persa in mare aperto. Ho detto alla squadra di soccorso che c’era l’altra mia figlia in mare. Quando sono tornati in mare aperto a cercarla, era già scomparsa.”
Nel settembre del 2015, l’immagine del piccolo di tre anni senza vita, Alan Kurdi, ha generato un’ondata di emozioni, commuovendo migliaia di persone in tutto il mondo che chiedevano di agire concretamente.
Sono passati quasi due anni, e bambini come le figlie di Hope – Mercy di otto anni e Faith di soli quattordici mesi – continuano ad annegare nel disperato tentativo di attraversare il Mar Mediterraneo in cerca di salvezza, protezione o una vita migliore in Europa.
Dalla morte del piccolo Alan, il 2 settembre del 2015, l’UNHCR, l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, ritiene che almeno 8.500 persone tra rifugiati e migranti sono morti o sono dispersi nel tentativo di attraversare il Mediterraneo, e tra loro un numero imprecisato di bambini.
“Anche se, dalla morte del piccolo Alan, il numero degli arrivi è drasticamente calato in Europa, le persone continuano ad intraprendere la traversata che a tanti costa la vita” dichiara l’UNHCR.
Alla fine dello scorso anno, la cifra record di 22.5 milioni di persone che sono state sradicate dal proprio Paese a causa di guerre e persecuzioni in tutto il mondo, più della metà di loro sono bambini.
L’UNHCR sta evidenziando come sia necessario trovare soluzioni e alternative sicure affinchè madri come Hope non siano costrette a rischiare la propria vita intraprendendo viaggi della speranza, poichè sanno di non avere alternative.
A causa dalle violenze in Nigeria, suo marito era già scappato in Europa. A causa delle stesse minacce, Hope e le sue figlie lo hanno seguito, attraversando il pericoloso deserto fino in Libia, pagando poi un trafficante per intraprendere il letale viaggio fino in Italia su un’imbarcazione di fortuna senza giubbotti di salvataggio e senza un telefono satellitare per poter chiamare i soccorsi.
“Quando ho deciso di intraprendere il viaggio con le mie figlie, non avevo altra scelta,” dice Hope, che ha fatto richiesta d’asilo in Italia e adesso vive in un centro d’accoglienza a Messina con l’unica figlia sopravvissuta, Charity.
“Non posso tornare a casa poichè i nemici di mio marito avevano giurato di vendicarsi contro la sua famiglia. E non potevo restare certo in Libia. Era diventato un posto troppo pericoloso per i bambini nell’ultimo anno. Dovevo chiudere le mie figlie a chiave nell’appartamento ogni volta che dovevo uscire di casa.”
L’UNHCR sottolinea che la comunità internazionale ha bisogno di fare di più per fermare la perdita di giovani vite in mare.
“La pressante necessità di trovare delle soluzioni per questi bambini e per le altre persone che si spostano rimane viva – se le persone non hanno speranze e vivono nella paura continueranno a mettere a rischio la propria vita affrontando questi viaggi disperati” dichiara l’UNHCR.
“I leader politici devono collaborare per trovare alternative più sicure, per informare in maniera più precisa coloro che hanno intenzione di affrontare il viaggio sui pericoli che li aspettano, ma soprattutto per sradicare le cause che sono all’origine di questi movimenti, risolvendo i conflitti e creando delle opportunità concrete nei paesi di origine”.
[1] I nomi sono stati cambiati per questioni di privacy
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