I conflitti e i cambiamenti climatici danno origine ad una combinazione tale che sempre più persone si vedono costrette ad abbandonare le loro case.
Hanno assassinato suo padre, dato fuoco al suo quartiere e lo hanno costretto a fuggire per salvarsi la vita. Radunando tutti i familiari che riusciva a trovare, Hawali Oumar ha abbandonato la sua città, Baga, nel nord-est della Nigeria, in fuga dalla violenza di Boko Haram. In cerca di sicurezza, ha attraversato la frontiera con il Ciad.
Anche lontano dagli scontri armati i problemi di Hawali, pescatore di 46 anni, non erano terminati. L’UNHCR, l’Agenzia dell’ONU per i Rifugiati, lo ha aiutato con una barca, reti e l’equipaggiamento necessario per mantenere sè stesso e la sua numerosa famiglia vendendo i prodotti del mare nella sua nuova comunità. Ma il lago Ciad, un tempo una fonte di acqua e mezzi di sostentamento per milioni di persone, si è ridotto del 90% dal 1960. Piante invasive coprono la metà di quello che resta, rendendo alle barche difficile l’accesso al lago. A causa dei cambiamenti climatici, dell’aumento della popolazione e dell’irrigazione non regolata, l’area circostante soffre di desertificazione, deforestazione e siccità.
Il risultato è che la vita delle comunità intorno al lago Chad diventa ogni anno più difficile. La violenza nella regione ha costretto alla fuga milioni di persone in Ciad, Camerun, Nigeria e Niger. E la crescente popolazone rifugiata deve lottare per ottenere una magra percentuale delle scarse risorse dell’area.
La storia di Hawali è solo un esempio di come le persone costrette a fuggire nel mondo sono le prime ad essere colpite dal cambiamento climatico. Dei 20,4 milioni di rifugiati sotto il mandato UNHCR alla fine del 2018, un terzo si trovava nei paesi più poveri al mondo, che sono anche più vulnerabili agli effetti negativi del cambiamento climatico o che soffrono la mancanza di risorse e infrastrutture. L’impatto dei disastri naturali e gli effetti più graduali del cambiamento climatico – come l’arretramento delle acque del lago Ciad, l’aumento del livello del mare per le comunità costiere, i periodi di siccità sempre più lunghi e difficili, la desertificazione – possono creare nuovi esodi e porre nuove sfide per le persone già costrette a fuggire dalle loro case.
Con la minaccia della desertificazione nell’area intorno il campo rifugiati di Minawao, nel nord del Camerun, l’UNHCR, Land Life Company e Lutheran World Foundation si sono unite per ripristinare oltre 100 ettari di terra nell’area.
I cambiamenti climatici e i disastri naturali possono aumentare e peggiorare le minacce che obbligano le persone a fuggire attraverso confini internazionali. L’interazione tra clima, conflitti, povertà e persecuzioni aumenta la complessità delle emergenze dei rifugiati. “Gli esodi dei rifugiati possono avere origine nell’interazione tra cambiamenti climatici e disastri con conflitti e violenza, o possono nascere solo da disastri naturali o provocati dall’uomo. Qualsiasi di queste situazioni può scatenare necessità di protezione internazionale”, ha detto Filippo Grandi, Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati.
Prendiamo, per esempio, il peggioramento della siccità in Somalia, che insieme alla violenza di Al-Shabab costringe migliaia di persone a fuggire, rimanendo nel paese come sfollati interni o attraversando la frontiera verso l’Etiopia. Shalle Hassan Abdirahman, rifugiato somalo fuggito in Etiopia, è sopravvissuto alla prigionia di Al-Shabab. E’ riuscito a scappare, e una volta libero ha deciso che non aveva altra scelta se non quella di fuggire. Al-Shabab aveva anche obbligato lui e gli altri agricoltori a pagare una “tassa” su ciò che guadagnavano, nonostante la siccità stesse già riducendo i suoi mezzi di sostentamento e lo avesse lasciato con ben poco da mangiare. Fino a qualche anno fa il fiume vicino straripava con l’arrivo delle piogge, nutrendo la terra e permettendo la crescita delle coltivazioni. “Ora il fiume non ha acqua e il cielo non ha pioggia”, ha detto Shalle Hassan. Il fiume e il tempo sono nelle mani di Allah, ha aggiunto, però le minacce e le estorsioni di Al-Shababa hanno reso la vita intollerabile. “Non resterà nessun essere umano lì, la terra è secca e non piove. E la gente che resta ha paura che Al-Shabab li uccida”.
Anche le popolazioni rifugiate già esistenti possono essere vittime dei cambiamenti climatici o di disastri e pericoli naturali. Quando il ciclone tropicale Idai ha colpito Mozambico, Zimbabwe e Malawi nel marzo 2019, per esempio, l’UNHCR ha ricollocato le famiglie di rifugiati in luoghi più sicuri e ha fornito loro tende, teli di plastica, kit sanitari e acqua pulita. Allo stesso modo, l’UNHCR ha aiutato i rifugiati Rohingya nel sud del Bangladesh a mitigare gli effetti delle piogge monsoniche, le inondazioni e gli slittamenti della terra.
Ma gli esodi forzati in sè possono essere una fonte di tensione e potenziale conflitto se si aggiunge la concorrenza per le risorse naturali, il diritto alla terra, cibo e acqua, problemi amplificati dagli effetti dei cambiamenti climatici. Questi problemi possono peggiorare la relazione tra rifugiati e le comunità che li ospitano, e contribuire a creare nuovi esodi.
“I fattori climatici spingono le persone a lasciare le loro case, ma i movimenti di rifugiati su larga scala, indotti dal clima e non, hanno a loro volta un impatto ambientale, e i rifugiati si trovano spesso in luoghi critici per i cambiamenti climatici”, ha detto Grandi. “All’UNHCR lavoriamo da anni per ridurre l’impatto ambientale delle crisi dei rifugiati attraverso opzioni di energia rinnovabile, attività di rimboschimento, accesso a tecnologie e combustibili puliti per cucinare. Ora abbiamo lanciato una strategia energetica rivitalizzata e stiamo migliorando i nostri strumenti per affrontare queste sfide”.
La maggior parte degli esodi dovuti a cambiamenti climatici sono interni, e non implicano l’attraversamento di una frontiera internazionale. Anche quando le persone sono costrette a fuggire solo a causa degli effetti dei disastri climatici e delle calamità naturali e attraversano frontiere internazionali, generalmente non diventano rifugiati come definiti dalla Convenzione sui rifugiati del 1951, per la quale è rifugiato chi ha attraversato un confine internazionale “con il fondato timore di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o opinione politica”. Tecnicamente parlando, quindi, il termine “rifugiato climatico” è in qualche modo inappropriato, in quanto non ha fondamento nel diritto internazionale e non riflette accuratamente i complessi modi in cui clima e esodi interagiscono. Ma, come ha sottolineato l’Alto Commissario, “l’immagine che trasmette – delle persone allontanate dalle loro case a causa dell’emergenza climatica – ha giustamente catturato l’attenzione dell’opinione pubblica”.
Come illustrato in precedenza, i cambiamenti climatici e i disastri spesso esacerbano le condizioni che costringono le persone a fuggire attraverso le frontiere, dando un ulteriore impulso alla fuga. In particolare, quando le persone sono costrette a fuggire a causa di catastrofi o fattori climatici che si aggiungono a conflitti o persecuzioni, è probabile che si applichi la Convenzione del 1951. Alcune persone costrette a fuggire oltre frontiera nel contesto di cambiamenti climatici o di catastrofi naturali possono rientrare nella definizione di “rifugiato” nell’ambito degli strumenti regionali se la fuga è il risultato di un grave turbamento dell’ordine pubblico. E coloro che non rientrano in questa definizione, potrebbero comunque aver bisogno di protezione internazionale, come i meccanismi di protezione temporanea e di soggiorno, o altre forme di residenza nel paese in cui sono fuggiti.
In breve, il diritto internazionale può intervenire in un’ampia gamma di situazioni legate ai cambiamenti climatici e agli esodi forzati. Poiché si prevede che nei prossimi anni un numero sempre maggiore di persone sarà costretto a fuggire da fattori ambientali, l’UNHCR è fortemente coinvolto nella formulazione delle politiche e nella definizione e nell’adeguamento dei quadri giuridici in questo settore. Data la sua competenza in materia di protezione internazionale e decenni di esperienza nelle emergenze, l’agenzia è pronta a mettere a disposizione le proprie risorse ogniqualvolta sia necessaria la sua assistenza.
“Laddove si verifica un esodo dovuto a catastrofi, è spesso necessaria una forte risposta operativa, guidata da considerazioni di protezione. L’UNHCR continuerà a lavorare in contesti inter-agenzia per sostenere i governi, basandosi sulla nostra solida esperienza nella risposta alle emergenze”, ha detto Grandi. Ha aggiunto che il Patto Globale sui Rifugiati, il piano per la condivisione della responsabilità degli stati nei confronti dei rifugiati, chiede l’inclusione dei rifugiati nelle strategie di riduzione del rischio di catastrofi.
Dopo che il tifone Haiyan ha distrutto la sua casa nelle Filippine alla fine del 2013, Algina Lacaba e la sua famiglia hanno ricevuto dall’UNHCR e dal suo partner UPS una tenda, attrezzature da cucina, materassi e una lampada solare. Il tifone Haiyan ha costretto alla fuga più di 4 milioni di persone, uccidendo migliaia di persone e distruggendo intere comunità. L’UNHCR ha permesso il progressivo ritorno di coloro le cui case sono state spazzate via, lavorando per rafforzare la capacità del governo di fornire servizi di base e difendere il diritto delle persone costrette a fuggire a tornare volontariamente.
Una volta terminata la tempesta, il marito di Algina, Joel, che aveva rischiato di annegare a causa delle inondazioni, si è unito agli operai locali nella costruzione di nuove e più forti case ben al di sopra del livello del mare. Garantire che le abitazioni siano attrezzate per far fronte ai futuri rischi climatici è fondamentale per facilitare ritorni sicuri e sostenibili.
L’UNHCR sostiene anche il trasferimento pianificato, che cerca di allontanare le persone dal pericolo quando l’innalzamento del livello del mare minaccia di rendere alcune zone inabitabili. Con la Georgetown University e altri partner, l’agenzia ha sviluppato una guida sul trasferimento pianificato delle popolazioni a rischio per proteggerle dai disastri e dall’impatto dei cambiamenti climatici, nel rispetto dei loro diritti umani. L’UNHCR ha recentemente partecipato ad un’esercitazione condotta dai governi di Costa Rica e Panama per simulare un disastro e affrontare in tempo reale le “conseguenze virtuali”, e ha poi pubblicato linee guida per il tipo di protezione di cui le persone costrette a fuggire potrebbero aver bisogno.
Infine, l’Agenzia non crede di poter costruire sostenibilità e resilienza imponendo le tecnologie pulite dall’alto. L’UNHCR continuerà a sostenere l’emancipazione dei rifugiati e delle comunità ospitanti attraverso la loro piena partecipazione alla pianificazione e all’attuazione di programmi energetici, il trasferimento di conoscenze e il rafforzamento delle capacità tecniche e commerciali, nonché il sostegno all’innovazione dal basso verso l’alto per creare interventi appropriati a livello locale.
Un’organizzazione con 17.000 dipendenti che lavorano in più di 130 paesi ha chiaramente “un’impronta” con un impatto ambientale. Ma abbiamo anche la capacità e l’opportunità di apportare cambiamenti su larga scala. Nell’ambito della politica “Greening the Blue”, l’UNHCR sta lavorando per ridurre gli sprechi di plastica e carta, risparmiare acqua ed energia, ridurre gli sprechi elettronici favorendo fornitori sostenibili e riciclando i prodotti elettronici, eliminare l’uso di combustibili fossili e istituire un fondo per l’uso interno di energia verde e sostenibilità.
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