Nome: Roberto Mignone, 53 anni, italiano
Ruolo: Rappresentante UNHCR in Libia con sede in Tunisia
Anni di lavoro in UNHCR: Quasi 25, tra Mozambico, Guatemala, Colombia, Svezia, Australia, India e Costa Rica, poi nella sede centrale di Ginevra all’interno di un team che si occupa delle emergenze nel mondo.
Perché sei diventato un operatore umanitario?
Stavo viaggiando in ’Asia quando incontrai dei bambini Karen provenienti dal Myanmar e rifugiatisi in un villaggio nel nord della Tailandia. Mentre gli offrivo dei dolci pensavo “spero, un giorno, di tornare con qualcosa di meglio”. In quel momento capii che avrei voluto lavorare in questo campo.
I Karen sono stati la prima popolazione indigena costretta alla fuga che io abbia mai incontrato. Ma da quando ho iniziato a collaborare con l’ UNHCR nel 1993, ho lavorato con altre popolazioni indigene in Guatemala, Panama, Colombia, Costa Rica e Filippine.
Lavorare con loro è diventata la mia priorità e la mia area di lavoro preferita, perché sono particolarmente vulnerabili e risentono dei conflitti in maniera sproporzionata. Non vi è dubbio alcuno sul fatto che abbiano bisogno di protezione.
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Qual è la cosa più soddisfacente/stimolante del tuo lavoro?
Essere il rappresentante in Libia è il lavoro più impegnativo che abbia mai fatto. Il nostro accesso al Paese è molto, molto limitato. A causa delle restrizioni dovute a ragioni di sicurezza, possiamo inviare in Libia una sola persona alla volta dalla nostra sede a Tunisi. Poi bisogna spostare tutto l’equipaggiamento; inoltre servono due veicoli armati e la protezione da parte di due agenti della polizia diplomatica, il che risulta davvero paralizzante. È una sfida enorme che per ora ci costringe a gestire il nostro staff da remoto.
C’è più di un governo. Quello con cui lavoriamo ha sede a Tripoli, poi ci sono le altre autorità in tutto il Paese. Non abbiamo un protocollo d’intesa, ma la nostra presenza è tollerata. Se potessi cambiare qualcosa , vorrei poter lavorare lì.
Gli oltre sei anni di disordini in Libia cominciarono con l’insurrezione che portò alla deposizione di Muammar Gheddafi nel 2011. Lavoriamo con mezzo milione di persone sfollate all’interno del proprio paese a causa del conflitto. Tra questi vi sono 200.000 sfollati e 300.000 che erano sfollati e sono tornati nelle loro aree di origine ma rimangono in situazioni precarie.
Inoltre lavoriamo con i rifugiati all’interno dei movimenti migratori misti, e anche questo è complicato, perché le autorità non riconoscono queste persone come rifugiati e non riconoscono il nostro ruolo. Per questo abbiamo deciso di evacuare migliaia di rifugiati dalla Libia, perché la situazione è troppo pericolosa per loro.
Stiamo facendo dei progressi. Nel 2017 abbiamo contribuito al rilascio di 950 persone dagli orribili centri di detenzione. Tra di loro c’era anche un bambino di otto anni. Di recente ho scritto una lettera per la liberazione di altri 2.280 persone: strapparli alla detenzione sarà un lavoro di protezione pura.
Tra i casi più eclatanti spicca quello di circa 30 donne ridotte in schiavitù dagli estremisti a Sirte. Quando la città è stata liberata sono state poste in regime di detenzione dalle autorità libiche con l’accusa di essere complici degli estremisti: le abbiamo liberate e le abbiamo reinsediate in uno Stato sicuro.
Qual è stato il giorno di lavoro più bello?
Quando ero in Colombia ho svolto 250 missioni sul campo , a cavallo, a piedi, su delle piccole imbarcazioni, raggiungendo le comunità stanziate nella giungla più remota.
Ricordo che una volta andammo nella regione di Chocó, sulla costa Pacifica, ai confini con Panama. Siamo stati a bordo di una barca per due giorni, prima nell’oceano e poi risalendo un fiume, fino ai territori in cui gli indigeni Emberá erano stati confinati dai narcotrafficanti.
Quando arrivammo al villaggio scapparono tutti, perché all’epoca le uniche persone che lo raggiungevano facevano del male alla popolazione. Abbiamo quindi passato alcuni giorni lì e pian piano gli abitanti cominciarono a fidarsi di noi. Gli spiegammo che eravamo lì per proteggerli, che non eravamo cattivi, e e alla fine lo capirono.
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Ho una foto scattata in quel villaggio: io sono seduto e c’è una bambina dietro di me che mi poggia una mano sulla spalla. Significa che anche i bambini capirono che eravamo lì per proteggerli, non per fargli del male. Quello fu il giorno più bello lavorativamente parlando.
Mi piace lavorare sul campo più di ogni altra cosa. Quando ero in Colombia, Guatemala e Mozambico pensavo “mi pagano per farlo?”; se mi avessero risposto “no, non ti paghiamo, anzi devi pagare tu” avrei pagato per fare il lavoro che stavo facendo.
E il più brutto?
È stato in Guatemala nel 1995, durante la guerra civile, quando lavoravo per proteggere i rifugiati Maya che erano tornati in Messico per prendere parte al processo di pace.
La maggior parte di coloro che sono morti nel conflitto, che è durato dal 1960 al 1996, erano Maya uccisi per mano dei militari. Ed eravamo come scudi umani tra l’esercito e gli indigeni che facevano ritorno. Erano soliti avvisarci quando i soldati entravano nei loro villaggi, perché avevano paura di loro.
Un giorno in particolare ricevemmo una chiamata da parte della comunità, che ci avvisava che l’esercito li aveva circondati. Presi subito la macchina e sfrecciai in direzione del villaggio su strade sterrate, e l’unica cosa che potevo fare era sentire alla radio gli aggiornamenti su quanto stesse accadendo. I soldati li stavano uccidendo.
Quando eravamo ormai arrivati al villaggio incrociammo una pattuglia che se ne andava. Avevano appena ucciso 11 persone, compreso un bambino. Sembravano in trance: estrassero le loro pistole, avrebbero potuto tranquillamente spararci. Quando arrivammo al villaggio ci trovammo di fronte a una scena da inferno dantesco. C’era gente che piangeva, sangue e corpi ovunque.
In precedenza abbiamo impedito che situazioni come questa accadessero semplicemente grazie alla nostra presenza, ma quella volta arrivammo troppo tardi. Ci fece capire che ciò che facevamo in altri villaggi funzionava. Altrimenti si sarebbero verificate altre situazioni simili.
L’Agenzia ONU per i Rifugiati è presente in 130 Paesi, dove aiuta uomini, donne e bambini in fuga dalle proprie case in seguito a guerre e persecuzioni. La sede centrale si trova a Ginevra, ma l’87% del nostro staff è dislocato sul campo per aiutare i rifugiati. Questa storia fa parte di una serie dedicata al nostro staff e al lavoro che svolge.
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