Di Kate Bond
Siamo al confine dell’Europa. Al di là delle scogliere a picco davanti a noi, l’azzurro blu del Mediterraneo si estende a perdita d’occhio. Proprio ieri, 19 aprile, tre barche sono state soccorse a poche miglia da qui, con a bordo centinaia di rifugiati in fuga da guerre e persecuzioni e di migranti con un disperato bisogno di lavoro. Si teme che altre centinaia di persone siano morte per il rovesciamento di una barca lo scorso fine settimana. La Siria e il Sud Sudan posson essere lontani, ma i conflitti che vi avvengono pesano più che mai sulla mente delle persone che sono qui, nell’isola di Lampedusa.
Dalla parte opposta della città, circa 1.000 rifugiati e migranti sono alloggiati temporaneamente in un centro di accoglienza che potrebbe ospitarne 400. La maggior parte sono uomini, ma ci sono anche donne e bambini. Ognuno di loro ha rischiato tutto ciò che aveva per fuggire e intraprendere una terribile traversata in mare, solo per poi ritrovarsi intrappolato dietro una rete in Europa. La maggior parte di loro entro una settimana o poco più saranno trasferiti. Ma i nuovi in fretta prenderanno il loro posto
Le spiagge bianche e le profonde acque turchesi di Lampedusa attirano oltre 20.000 turisti ogni anno. Ma pochi di loro incontrano persone come Noor, la ragazzina di nove anni della Siria che nella fuga ha perso la cosa più importante che aveva con sé, o Giuseppe, il Comandante della Guardia Costiera il cui equipaggio con ogni probabilità ha contribuito a salvarle la vita.
I Gemelli
Quando Mohammed mi saluta e mi stringe la mano per quella che mi sembra essere la seconda volta, comincio a chiedermi se il caldo mi stia dando alla testa. “Ciao, di nuovo,” dico lentamente, prima di rendermi conto i Mohammed sono due e uno di loro sta ridendo. Sono gemelli monozigoti, mi spiega Iyla. In effetti, la sua giacca marrone è l’unico modo che ho per distinguerli.
I due fratelli, dagli occhi azzurri e il sorriso contagioso, sono fuggiti da Aleppo, in Siria, nel lontano 2013, quando la guerra ha iniziato a sconvolgere le loro promettenti vite. “La nostra casa e i nostri ristoranti sono stati bombardati,” ricorda il venticinquenne Iyla, mentre parliamo vicino al cancello del centro di accoglienza di Lampedusa. “Se fossimo rimasti saremmo morti. Si muore una volta sola nella vita e abbiamo deciso di rischiare di morire cercando di arrivare qui.”
Dalla Siria sono arrivati in Algeria, ma lì la vita è diventata presto troppo costosa. Tremila dollari per un pericoloso viaggio in mare verso l’Europa sembrava un piccolo prezzo da pagare, paragonato alla possibilità di una vita migliore. Ma ben presto rimpiansero la loro decisione. “Il viaggio è stato molto difficile”, dice Mohammed. “Siamo stati in mare per molto tempo – 15 ore – e il motore stava andando in avaria.”
“Ogni minuto pensavamo di essere vicini alla morte “, continua, guardando il fratello che ha chiuso gli occhi. “Ad ogni scossa sentivamo che la barca stava per rovesciarsi. Con noi c’erano dei bambini a bordo. Eravamo tutti molto spaventati.”
Iyla e Mohammed hanno avuto la fortuna di sopravvivere alla traversata. Ora, insieme, hanno la possibilità di rifarsi una vita in sicurezza, ma rimpiangono ancora ciò che sarebbe potuto essere. “Con la guerra abbiamo perso tutto,” dice Iyla. “Per garantirsi un futuro i siriani sono costretti a partire per l’Europa.”
(Qui il video con la storia dei gemelli Iyla e Mohammed)
L’appassionato di calcio
È pomeriggio inoltrato e le strade assolate del centro di Lampedusa sono tranquille, quando mi imbatto in Mudther, in piedi davanti a un telefono pubblico con i suoi amici. “Stephen Gerrard!” esclama con un sorrisone quando scopre da dove vengo. Qui, il linguaggio universale del calcio colma molte distanze.
Attorno a noi dei cani fiutano alla riceca di avanzi, mentre Mudther mi spiega che sta aspettando di poter chiamare sua madre. Non la sente da quando è fuggito dal Sud Sudan diretto verso la Libia, e non vede l’ora di riascoltare la sua voce. Stretto tra le sue mani c’è un foglietto di carta bianca – il numero di telefono di sua mamma.
Tre giorni fa non aveva alcuna certezza che avrebbe risentito la voce di sua madre, per non parlare di poterla rivedere. “Sulla barca c’erano forse 300 persone,” mi dice, mentre aspetta che un suo amico finisca la telefonata. Il peschereccio sovraffollato ha navigato a largo in acque agitate, finché alla fine non ha raggiunto le coste di Lampedusa. Più volte è stato terrorizzato al pensiero che si potesse ribaltare.
Ora, insieme a circa 1.000 altri migranti e rifugiati sopravvissuti a un viaggio da incubo nel Mar Mediterraneo, Mudther dormirà in questo centro di accoglienza fino a quando non sarà trasferito sulla terraferma.
La quotidianità per il momento è in sospeso. Ma i piani di Mudther sono lontani da qui. “Voglio andare a Londra”, dice. “Da Calais, in Francia. So come fare.”
Non appena il suo amico riaggancia il ricevitore, Mudther lo solleva e sorride. La nostra conversazione può essere finita, ma la sua è solo all’inizio. Mentre mi allontano, c’è un momento di silenzio – poi, una semplice parola: “Mamma?”
Il Comandante
Giuseppe Cannarile, comandante della Guardia Costiera di Lampedusa, beve un sorso del suo caffè mattutino e si aggiusta gli occhiali. Fuori, il giorno è solo all’inizio, ma lui e la sua squadra sono già all’erta
“Per ora non abbiamo chiamate”, mi dice mentre ci sediamo alla sua scrivania. Una bandiera italiana sventola orgogliosa all’ingresso degli uffici della Guardia Costiera. “Ma il tempo oggi è bello, c’è la possibilità che ci chiamino.”
Cannarile guida un’impressionante squadra qui a Lampedusa, comandando sette navi che pattugliano le acque alla ricerca di barche in arrivo dal Nord Africa.
“Solo nella scorsa settimana abbiamo salvato più di 10.000 persone nel Mar Mediterraneo e effettuato oltre 20 operazioni di ricerca e salvataggio”, dice. “Abbiamo visto persone decedute, persone malate, donne incinte e bambini.”
Molte delle barche, mi dice, lanciano una richiesta di soccorso diretta attraverso un telefono satellitare. Comunque anche le navi mercantili e gli aerei sono vigili, e la flotta di Cannarile si impegna a rispondere immediatamente.
Come marito e padre di due figli, sente il peso della sua responsabilità. “Abbiamo un solo compito: salvare vite in mare, che si tratti di un migrante, di un pescatore o di chiunque altro. Per me – e per i miei uomini e donne della Guardia Costiera – questo è più di un semplice lavoro. È una missione.”
La ragazzina
Non parlo l’arabo, ma Noor, una bambina siriana di 9 anni, , non lascerà che una cosa trascurabile come la lingua disturbi la nostra conversazione. “Ciao!” mi dice nel suo inglese migliore, balzando fino a me dall’altra parte del cortile del centro di accoglienza. Indossa una tuta verde mare. Ci sediamo insieme in una piccola zona d’ombra, mentre chiacchiera allegramente di ciò che ama di più: i suoi gioiellini.
Mi indica orgogliosamente un anello d’argento che porta al mignolo. Non lo diresti dal suo sorriso felice, ma solo pochi giorni fa Noor era stipata su una barca con la sua famiglia e centinaia di altre persone, abbandonati nel Mar Mediterraneo. La sua espressione cambia solamente quando ripensa a quel viaggio.
“È stato spaventoso?», le chiedo, e lei alza le spalle. “Hai avuto freddo?» Lei annuisce, ma non è questo. “Persa,” mi dice tristemente, e dopo poco scopriamo che una borsa di accessori, frettolosamente impacchettata prima che la famiglia fuggisse dalla Siria, è caduta in mare lungo il tragitto.
Sua madre, che con la famiglia ha dovuto camminare nell’acqua alta fino al collo per raggiungere la barca, ha promesso a Noor che le avrebbe comprato nuovi gioiellini. Ma qui, nel centro di accoglienza di Lampedusa, non c’è molta speranza di poterlo fare.
Noor ha solo nove anni, ma i suoi sogni – avere “un lettino e delle pareti rosa” – si stanno già sgretolando. Solo il tempo e l’occasione possono farli diventare realtà.
I tre fratelli
“Sapete dove posso trovare un negozio che venda telefoni?» mi chiede Ahmed quando ci incontriamo nel cortile del centro di accoglienza di Lampedusa. Tira fuori uno smartphone dalla sua tasca e indica lo schermo nero. “Pieno d’acqua.”
Il diciannovenne siriano sperava di poter chiamare i suoi genitori a Damasco, per dir loro che lui e i suoi due fratelli ce l’avevano fatta. Erano fradici ancor prima di salire sulla barca, dato che i trafficanti li avevano costretti a raggiungerla immergendosi nelle onde. Hanno poi viaggiato per giorni nel freddo del mare aperto, finché non sono stati finalmente soccorsi al largo delle coste di Lampedusa.
Sia Ahmed che il fratello più piccolo, Mwafaq, hanno dovuto abbandonare gli studi. Il più grande, Ali, a 28 anni ha rinunciato a un’intera carriera, avendo lavorato come cameraman in una delle più celebri soap opera della Siria. Si illumina alla vista del nostro videoperatore. “Una PMW-200!” esclama riconoscendo il modello della videocamera.
Per i fratelli il futuro sembra una strada in salita. Con i loro genitori ancora bloccati in Siria, dovranno rimanere uniti. Ali spera di realizzare un film sul suo viaggio dalla Siria a Lampedusa – e Mwafaq, il cui nome significa ‘fortunato’, vuole solo tornare a studiare.
Ahmed per ora spera solo di avere la possibilità di parlare con i suoi genitori – che ancora non sanno nemmeno se i loro figli siano vivi o morti.
Il Dottore
Sono state 24 ore molto lunghe per il dottor Domenico Bartolo. Nelle prime ore della notte scorsa una squadra di ricerca e salvataggio ha trovato vicino alla costa di Lampedusa più di 70 migranti alla deriva su una barca, portandoli a riva. Quando sono arrivati si è scoperto che molti di loro erano gravemente ustionati – a causa dell’esplosione di una bombola di gas avvenuta in Libia. Fra loro c’era un bambino di sei mesi, e anche una donna di 25 anni, putroppo deceduta. Tutti avevano sofferto in mare per due giorni.
Ventitré persone, ustionate al punto che potevano a malapena camminare, sono stati portate nell’infermeria locale, qui sull’isola di Lampedusa. Lì il pacato dottor Bartolo e la sua squadra erano pronti a riceverli.
La mattina dopo visito l’infermeria per controllare i loro progressi. Molte donne sono ancora sedute nella reception, avvolte in coperte d’emergenza, e fissano assenti le pareti. Verrò poi a sapere che è perché le ustioni sono così dolorose che non riescono a parlare. Il dottor Bartolo è a disposizione per curarle e dar loro un po’ di conforto.
«Hanno ustioni molto gravi,” conferma. Lo sguardo è segnato dalle occhiaie. “Almeno 10 di loro sono in condizioni critiche. È possibile che non sopravvivano, ma speriamo per il meglio.” Nelle vicinanze, una donna che indossa scarpe di carta geme piano dal dolore, e il dottore si dirige immediatamente a confortarla.
Nonostante lavori ore e ore cercando di salvare vite umane, il dottor Bartolo condivide tutto il merito con i suoi colleghi medici e soccorritori. “Non avrei potuto farlo senza di loro,” dice con fermezza.
Foto di copertina: © Marina Militare/Massimo Sestini
Foto del servizio: © UNHCR/Francesco Malavolta
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