Ahmed e la sua famiglia hanno vissuto in otto in una stanza di sei metri quadrati sul tetto di una fabbrica di tacchi per scarpe a Beirut, quando con i sei figli sono fuggiti dalla guerra in Siria.
Degli ultimi anni in Siria, Ahmed ricorda solo la paura e l’incertezza. “Ormai vivevamo così: ogni mattina ci chiedevamo se eravamo ancora vivi o no,” racconta. “Ho portato via i miei figli. Altrimenti adesso sarei stato senza.”
In Libano sono “sopravvissuti”, come dice Ahmed, anche grazie agli aiuti che hanno ricevuto. Ma quella non era vita. I trasporti costavano troppo. I bambini non potevano andare a scuola. Non c’era futuro.
“Eravamo soffocati, dormivamo uno sopra l’altro, un bambino sopra l’altro perché non c’era posto, l’affitto di una casa era molto caro, lo stipendio non bastava per sopravvivere.”
Sullo stesso tetto, in una stanza adiacente alla loro, i dipendenti della fabbrica lavoravano con sostanze tossiche. Pertanto, la famiglia di Ahmed non poteva uscire di “casa” fino alle due del pomeriggio. Hanno vissuto per due anni in queste condizioni, prima di essere reinsediati in Italia.
Quando sono arrivato a casa in Italia, non sono riuscito a dormire di notte, non ho dormito perché ero troppo felice”
Ahmed racconta che c’è voluta quasi una settimana per realizzare che non era un sogno. Che quella casa con tre stanze e un bagno sarebbe stata loro per tutta la durata del progetto di accoglienza e integrazione.
Lì i bambini erano condannati, senza andare a scuola, né potersi curare. Ma ora qui riusciamo a vedere un raggio di speranza per il futuro, dei bei sogni per i bambini, che hanno iniziato a frequentare la scuola, ad avere degli amici e a conoscere altre persone.”
Abbiamo incontrato per la prima volta la famiglia di Ahmed in Libano nel febbraio 2016, durante una missione dell’UNHCR Italia con Elisa Sednauoi, modella, attrice, regista, filantropa e nostra grande sostenitrice.
Allora Ahmed e la sua famiglia ancora non sapevano cosa li avrebbe aspettati in Italia, erano pieni di domande e preoccupazioni, ma già si sentivano fortunati per quest’opportunità.
“Avete notato?”, ci chiedeva Elisa seduta a terra nella casa della famiglia di Ahmed a Beirut, “parlano di altri: parenti, amici, vicini di casa che hanno bisogno di aiuto. Chi è stato accettato per il reinsediamento si sente fortunato e vorrebbe dare una mano a tutti quelli che conosce e lascia lì.”
Ahmed racconta così il giorno in cui sono partiti in aereo da Bierut, che è stato per lui il giorno più bello:
Abbiamo salutato i nostri amici, i familiari ed i parenti. In un pullman ci hanno portati all’ufficio immigrazione. E da lì non abbiamo dovuto fare più nulla, si sono occupati di tutto. Trasportavano le valige, offrivano da mangiare, offrivano da bere, ci hanno fatti salire a bordo del volo, ci hanno fatti scendere in aeroporto, ci hanno accolto con del cibo, ci hanno ricevuto e con un pullman grande ci hanno portato fino a casa. E a casa abbiamo trovato tutto pronto.”
Il programma di reinsediamento prevede un accompagnamento costante delle persone rifugiate dalle fasi di pre-partenza fino all’integrazione nel Paese che ha scelto di accoglierle. L’UNHCR collabora con i governi e con vari attori coinvolti in questo processo. L’Italia ha aderito al programma di reinsediamento nel 2014, ed è impegnata a reinsediare circa 2.000 rifugiati siriani.
È strano pensare che questi bambini diventeranno inglesi, norvegesi, italiani. Chissà cosa ricorderanno di questi anni. Come i loro genitori, anche io avrei preferito diventassero dei siriani felici. Dovranno tenersi strette le proprie radici. Quando sono arrivata in Piemonte dall’Egitto ho dimenticato completamente arabo e inglese, volevo solo essere come gli altri bambini di Bra. Provo tenerezza perché so cosa li aspetta”, racconta Elisa nel suo diario della nostra missione in Libano.
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