Presidente, La ringrazio,
I nostri ultimi dati parlano di 114 milioni di rifugiati e persone sfollate nel mondo: 114 milioni!
Si tratta di un sintomo tangibile, sicuramente, ma spesso ignorato, dell’attuale ed estremo disordine mondiale, la ringrazio per aver dato spazio a questa annuale discussione, nonostante i tanti impegni, soprattutto in questi giorni, a riprova dell’attenzione del Brasile per coloro che sono costretti alla fuga.
Le persone costrette a fuggire sono una diretta conseguenza del fallimento nel garantire pace e sicurezza, e i conflitti brutali continuano ad esserne la causa principale. Le ultime tre settimane hanno provato in maniera devastante come l’inosservanza delle regole fondamentali di guerra e del diritto internazionale umanitario, stia diventando sempre più la norma e non l’eccezione, a fronte di un numero senza precedenti di civili innocenti uccisi: gli attacchi di Hamas contro i civili israeliani e l’uccisione di civili palestinesi e la massiccia distruzione di infrastrutture causata dall’operazione militare israeliana in corso. Mentre parliamo, e come ormai sapete, oltre due milioni di cittadini di Gaza, metà dei quali bambini, stanno vivendo quello che il mio collega Philippe Lazzarini ha definito “l’inferno in terra”. Un cessate il fuoco umanitario, unito ovviamente a una sostanziale fornitura di aiuti umanitari all’interno di Gaza, può almeno fermare questa spirale di morte e spero per questo che possiate superare le vostre divisioni ed esercitare la vostra autorità per chiederlo, il mondo sta aspettando che voi lo facciate.
Ma vogliamo sperare che il cessate il fuoco sia il primo passo per intraprendere, ancora una volta – finalmente! – il cammino verso una soluzione. Per molti anni, compresi quelli in cui ho diretto l’UNRWA, mi sono reso conto di come la soluzione del conflitto israelo-palestinese sia sempre stata descritta come “sfuggente”: ma non è stata sfuggente; è stata ripetutamente e deliberatamente trascurata, messa da parte come qualcosa di non più necessario, e quasi ridicolizzata. Affrontare la cronica recrudescenza della violenza, seguita da cessate il fuoco temporanei, è stato ritenuto più conveniente che concentrarsi su una vera pace, in grado di dare a israeliani e palestinesi i diritti, il riconoscimento, la sicurezza e la statualità che meritano. Spero che ora, tra gli orrori della guerra, si possa almeno capire quanto sia stato grave l’errore di valutazione. Non ci sarà pace nella regione e nel mondo senza una giusta soluzione al conflitto israeliano e palestinese, compresa la fine dell’occupazione israeliana. Spero che le osservazioni del Segretario Generale qui in Consiglio la scorsa settimana aiutino tutti a riflettere sulla necessità di voltare questa cupa pagina, per quanto difficile possa essere: perché è vitale.
E il contrario è profondamente preoccupante. Sebbene l’UNHCR non abbia il mandato di operare nei Territori palestinesi occupati (e permettetemi di rendere omaggio soprattutto all’UNRWA, la mia ex organizzazione, e ad altri operatori umanitari per il loro eroico lavoro, ed esprimere le mie più sentite condoglianze per i 67 colleghi uccisi), è chiaro che quest’ultima e più letale fase di conflitto violento rischia di contagiare l’intera regione e non solo, con conseguenze catastrofiche, anche in luoghi in cui c’è una forte presenza dell’UNHCR e dove lavoriamo per proteggere e assistere gli sfollati e cambiare la loro condizione.
Signor Presidente,
il conflitto a Gaza è l’ultimo – e forse il più grande – tassello di un pericolosissimo puzzle di guerre che si stanno rapidamente chiudendo intorno a noi.
Ma noi – voi – abbiamo la responsabilità di ricordare che non è l’unico.
Pensate al Sudan: solo sei mesi fa i governi e i media erano molto concentrati su questa situazione, mentre i cittadini di questo Paese venivano sradicati a causa di un conflitto esploso senza alcun preavviso e che ha trasformato le loro case dove vivevano in pace, in cimiteri. Ora, i combattimenti aumentano in portata e brutalità, colpendo la popolazione del Sudan, e il mondo è scandalosamente silenzioso, nonostante le continue violazioni del diritto internazionale umanitario persistano impunemente. È vergognoso che le atrocità commesse 20 anni fa in Darfur possano ripetersi oggi e che ci sia così poca attenzione. Di conseguenza, quasi sei milioni di persone sono state costrette ad abbandonare le loro case; più di un milione sono fuggite in Paesi vicini e spesso fragili – e alcuni di loro si sono già spostati in Libia e in Tunisia, attraversando poi il Mediterraneo su imbarcazioni di fortuna verso l’Italia e il resto d’Europa. Accolgo con favore la ripresa dei colloqui di Gedda e spero che contribuiscano a raggiungere presto, almeno, un cessate il fuoco.
Pensate al Libano, che sta soffrendo per il collasso economico di un Paese in cui una persona su quattro è un rifugiato palestinese o siriano, concreto segnale di non uno ma ben due conflitti irrisolti ai confini di questo piccolo Paese.
Pensate alla regione del Sahel centrale, dove, in contesti di grave instabilità politica, la violenza brutale, che per anni ha terrorizzato i civili, sta di nuovo aumentando, costringendo sempre più persone a fuggire verso gli Stati costieri dell’Africa, che sono giustamente molto preoccupati, sullo sfondo di un’emergenza climatica che sta inesorabilmente devastando i Paesi più poveri.
Pensate alla Repubblica Democratica del Congo, dove uno dei peggiori effetti dei conflitti recenti – l’orribile violenza contro le donne – è talmente diffuso come strumento di guerra da rendere il mondo quasi insensibile alle notizie ricevute ogni giorno sul numero sempre in crescita di donne e bambini violentati, sfruttati e uccisi – una violenza, questa, che spinge ogni giorno le persone ad abbandonare le loro case e fuggire.
Basti pensare all’Armenia, dove 100.000 rifugiati sono fuggiti da Karabakh nel giro di pochi giorni; il risultato di un altro conflitto irrisolto che è stato lasciato ribollire per decenni.
Guardiamo a luoghi come l’America Centrale e altrove, dove vediamo sempre più uno schema per cui crisi irrisolte si aggravano a causa della criminalità, incluse le gang criminali, che costringono le persone alla fuga – e dove complessi flussi di popolazione ora comprendono anche molti arrivi dall’Africa e oltre – a testimonianza della globalità di questo fenomeno e la disperazione.
Ogni nuova crisi sembra spingere le precedenti in un pericoloso oblio. Ma queste continuano ad esistere. Pensate all’Ucraina, dove come avete appena sentito, non solo persiste la condizione di tutti i civili – tra cui più di 11 milioni di persone, costretti ad abbandonare le proprie case in seguito all’invasione ma è particolarmente acuta ora, con l’arrivo dell’inverno. La loro sofferenza non deve essere dimenticata e anche questo conflitto deve essere risolto con una giusta pace per il popolo ucraino.
Signor Presidente, pensi a tutte queste crisi, e lasci che questo operatore umanitario da ormai una vita, le dica, che abbiamo bisogno della sua voce per affrontarle tutte. Non le vostre voci. La vostra voce. La vostra voce forte e unita dell’autorità che la Carta affida a questo Consiglio, ma che il mondo non sente più, affogato com’è da rivalità e divisioni. Dal mio punto di vista, questo è diventato difficile da capire. Come sostenitore del multilateralismo e del ruolo delle Nazioni Unite, non posso accettarlo.
Signor Presidente,
Agli operatori umanitari viene chiesto di raccogliere i pezzi e di aiutare sempre più persone in sempre più luoghi. Ci viene chiesto di andare avanti più a lungo e di cercare di tenere insieme più cose, mentre poco si fa sul piano politico per ottenere la pace.
Vi assicuriamo che non ci arrenderemo, anche quando sarà ancora più difficile. Riconoscendo, ad esempio, che importante onere rappresentano per i paesi limitrofi che li ospitano, i milioni di rifugiati siriani, continuiamo a collaborare con il governo siriano per colmare l’ancora ampio divario legato alla mancanza di fiducia che esiste e per creare le condizioni affinché i rifugiati possano infine tornare volontariamente, in sicurezza e dignità.
Per questo motivo è frustrante pensare che quando troviamo delle soluzioni, come ad esempio in Burundi, non abbiamo i fondi per aiutare le persone a tornare a casa e a ricominciare la loro vita.
Ma ci sono anche altre sfide, che riflettono l’instabilità del nostro mondo: un esempio sono Paesi come il Myanmar, l’Afghanistan e altri, dove la combinazione di conflitti, violazioni dei diritti umani e sfide umanitarie fa sì che la consegna degli aiuti – indispensabile per salvare vite umane – richieda l’interazione con le autorità de facto in contesti politici difficili e spesso pericolosi.
Apprezzo i rischi ed il lavoro svolto dal Consiglio sulle deroghe umanitarie, che spero continui. Perché in queste situazioni abbiamo bisogno di flessibilità, innanzitutto da parte di chi controlla il territorio, ma anche da parte dei nostri sostenitori. La realtà è che gli operatori umanitari stanno cercando di tenere insieme i pezzi del puzzle anche in questi territori, dove per la maggior parte dei governi è troppo difficile operare. Ci stiamo impegnando e quindi siamo esposti. Ma non ci arrendiamo perché le persone non possono vivere in attesa di una pace alla cui costruzione nessuno lavora.
Inoltre, ci viene chiesto di fare di più con meno risorse. Perdonatemi se parlo di soldi, ma devo farlo, perché il lavoro umanitario ha bisogno di risorse. L’UNHCR soltanto, ha urgentemente bisogno di 600 milioni di dollari entro la fine dell’anno e le prospettive per quello successivo sono pessime, con i grandi donatori che tagliano gli aiuti e altri – che potrebbero aiutare – che non si impegnano nel sostegno multilaterale. L’UNRWA – il cui ruolo cruciale è ormai chiaro a tutti – è cronicamente sottofinanziata. Il WFP (Programma Alimentare Mondiale), l’UNICEF e il Comitato Internazionale della Croce Rossa vivono la nostra stessa crisi finanziaria per perseguire le loro attività umanitarie.
Pertanto, siamo costretti a stabilire le priorità e riorganizzarci.
Tagliamo le razioni, i ripari, il nostro personale, sperando di mantenere un’ancora di salvezza per chi ne ha bisogno. Ma in molti luoghi quell’ancora di salvezza si assottiglia di giorno in giorno.
Essere soli, essere esposti, essere a corto di risorse mi spinge a chiedermi per quanto tempo ancora possiamo continuare. Gli operatori umanitari sono tenaci – ma, signor Presidente, sono vicini al punto di rottura. E cosa vi rimarrà, quando saranno costretti ad andarsene?
Signor Presidente,
La gravità di questo momento non può essere sottovalutata. Le scelte che voi 15 farete – o non farete – segneranno tutti noi, e per le generazioni a venire.
Lascerete che questo puzzle di conflitti si completi di atti aggressivi a causa della vostra disgregazione o di semplice negligenza?
O sarete coraggiosi e intraprenderete i passi necessari per far ritorno dagli abissi?
Grazie.
Condividi su Facebook Condividi su Twitter