Di Barbara Molinario e Iosto Ibba
Lampedusa, un anno dopo.
In testa ha ancora impresse le parole pronunciate all’indomani del naufragio, la certezza che se avesse saputo del pericolo cui andava incontro, non sarebbe mai salito su un barcone per attraversare il Mediterraneo.
Habte era una delle persone a bordo della barca affondata al largo delle coste di Lampedusa il 3 ottobre 2013. Quel terribile giorno, in cui morirono oltre 300 persone, lui riuscì a sopravvivere grazie all’intervento di tre pescatori, che lo tirarono fuori dall’acqua quando era allo stremo delle forze.
Trascorso un mese, il 12 novembre, nonostante il grandissimo trauma subito, era sul treno che l’avrebbe portato da Catania a Milano. Tre giorni dopo, il 15, era già arrivato in Danimarca.
“La Danimarca è stata una scelta obbligata” racconta “mi sarebbe piaciuto proseguire più a nord, in Svezia o Norvegia, ma una volta arrivato nel paese la polizia mi ha preso le impronte digitali, così ho inoltrato la mia richiesta d’asilo”.
In Danimarca c’è freddo, certo, ma c’era anche un tetto ad aspettarlo, ed una società ben disposta verso l’integrazione. Nei primi mesi di permanenza, per quanto precari, ha avuto tutto quello di cui c’era bisogno: cibo, vestiti, assistenza medica, ma anche un corso di lingua danese, che frequenta ancora oggi, per tre volte a settimana.
“La lingua è difficile ma io ce la sto mettendo tutta” dice Habte “Per ora, la scuola è la cosa più importante, una volta che avrò finito con questo corso potrò cercare lavoro con più tranquillità”. Parlando, rivela già una certa confidenza con la nuova lingua. Senza accorgersene, infatti, utilizza già espressioni in danese e sembra incredibile che in così poco tempo sia riuscito ad interiorizzare una parte così importante di una cultura straniera.
Ora, un anno dopo, Lampedusa è ormai distante, ma la quotidianità costruita nel paese scandinavo è ancora profondamente intrecciata all’esperienza del naufragio.
La maggior parte dei suoi amici in Danimarca sono di origine eritrea e tra loro ci sono anche altri due sopravvissuti del naufragio. Si vedono regolarmente, discutendo del più e del meno, della loro vita, della salute e dei familiari, il ricordo della tragedia sempre sullo sfondo.
Fin dall’inizio si è impegnato come responsabile e rappresentante dei sopravvissuti a questa tragedia, ha stilato di suo pugno una lista dei morti e dispersi ed ha dedicato una buona parte del suo tempo e delle sue energie alle persone coinvolte.
Ad un anno di distanza continua a ricevere le richieste di amici e familiari delle persone scomparse e con pazienza risponde ad ognuno di loro. Molte delle immagini e dei nomi che gli sono stati inoltrati non richiamano ormai nessun ricordo, così è costretto a far circolare quelle stesse foto nella piccola rete di sopravvissuti con cui è rimasto in contatto, facendosi aiutare nel riconoscimento. Senza nessun’altro indizio poi, ha sempre consigliato di effettuare la prova del DNA, per facilitare il processo di riconoscimento e trovare così una risposta definitiva alle loro domande.
Il senso di responsabilità che sente nei confronti di quello che è successo e delle persone coinvolte è ancora molto forte, “Non si tratta neanche più di andare avanti, questa è semplicemente umanità.”
A questo aggiunge la certezza che non ci sia altra scelta e che per molti Eritrei che fuggono dal paese, affidando le loro vite ai trafficanti ed attraversando il deserto e la guerra in Libia, la traversata in mare sia solo l’ultima delle difficoltà. Pochi giorni fa lo ha chiamato il nipote, era a Milano, alla stazione, arrivato anche lui in Italia da pochi giorni. “Sapeva quello che mi era successo e sapeva anche che non avrei voluto che partisse via mare. Ha fatto tutto senza dirmi niente, ma lo capisco, non ci sarebbe stata alcuna alternativa”.
Nel futuro di Habte c’è lui, ma c’è anche la sua famiglia. Dopo aver ottenuto lo status di rifugiato, ha inoltrato la richiesta di ricongiungimento familiare. Sua moglie è ancora in Sudan ma presto lo raggiungerà in Europa.
“Tra poco compirò il mio primo anno di vita” scherza Habte, nato trentaquattro anni fa in Eritrea, sopravvissuto al naufragio del 3 ottobre 2013 nelle acque di Lampedusa.
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