Da anni la ginecologa Nagham Hasan fornisce assistenza medica e sostegno psicosociale a ex prigioniere dell’ISIS, un lavoro che intende continuare “finché sarà necessario” nonostante spesso sia difficile.
È settembre e sono passati otto anni da quando queste donne sono state ridotte in schiavitù dai militanti dell’ISIS. Fuori dal complesso il caldo estivo è intenso. Quando il generatore si spegne, si sentono solo le voci sommesse delle donne; parlano con rapidità e insistenza, per l’insolito senso di speranza che la visita della dottoressa infonde in loro. Quattro anni dopo la fuga dalla prigionia, la vita per loro rimane precaria.
“Grazie, dottoressa, per quello che fa per noi. È stata la prima a rassicurarci, consigliarci e guidarci. Senza di lei, oggi saremmo perdute”, dice Nergiz, 42 anni, catturata nel 2014. Come tutte le vittime di questa tragedia, ha scelto di usare uno pseudonimo a causa dello stigma e del rischio di rappresaglie anche da parte della sua stessa comunità.
“Eravamo tutte prigioniere. Ognuna di noi ha trascorso più di quattro anni nelle mani dell’ISIS”, racconta Nergiz, indicando il gruppo di donne intorno a lei. Nel 2014, a causa del loro credo, la minoranza religiosa degli Yazidi è stata presa di mira e sottoposta a una devastante campagna genocida.
Nell’agosto dello stesso anno, i militanti dell’ISIS hanno conquistato Sinjar, nell’Iraq nord-occidentale, dove hanno giustiziato migliaia di uomini, donne e bambini yazidi e rapito più di 6.000 persone. Hanno sottoposto donne e ragazze a terribili atrocità, in particolare violenza sessuale e schiavitù. Sinjar è stata riconquistata un anno dopo, ma circa 3.000 persone yazidi risultano ancora disperse e oltre 200.000 sfollate.
La dottoressa Nagham, 45 anni, si rivolge a Nergiz con dolcezza: “Ci sarò sempre per sostenervi. Se non riesco a farlo, è perché non ne ho la capacità. Il mio obiettivo è aiutarvi a superare il trauma che avete subito”. Poi avvolge un misuratore di pressione intorno al braccio di Nergiz, lo gonfia e attende il risultato.
È stato durante la sua infanzia trascorsa a Bashiqa, cittadina nel nord dell’Iraq, che la dottoressa Nagham, anche lei di nazionalità yazida, ha visto le ingiustizie e gli abusi che le donne subivano nella società in generale e ha deciso di aiutarle. Ha studiato medicina a Mosul e ha iniziato la professione aiutando le donne con problemi di infertilità. Ma nel 2014 la sua carriera ha subito una svolta radicale.
“Ho visto la tragedia che aveva colpito le donne yazidi, il modo in cui venivano sottoposte ad abusi verbali e stupri”, racconta. Mentre tutti fuggivano, lei ha scelto di agire e curare le donne sopravvissute residenti nei campi e bisognose di cure per le infezioni e le ferite causate dalle diffuse torture e violenze sessuali, oltre che dalle deplorevoli condizioni di vita.
Poco dopo essere diventata la direttrice dell’ospedale Sheikhan General, ha fondato la ONG Hope Makers, dedicata all’assistenza delle vittime di violenza. Oltre a mettere a disposizione le sue competenze mediche, la dottoressa fornisce un sostegno personale.
A volte, però, è difficile trovare parole di sollievo per le sue pazienti, soprattutto quando si tratta di bambine di otto anni: “È una cosa che mi colpisce profondamente e offende il mio senso di umanità: come si può consolare una bambina così piccola violentata più volte da un uomo di 60 anni?”.
Quando il dolore e la preoccupazione prendono il sopravvento, la dottoressa si rivolge a sua madre, Suham, che la consiglia e la sprona a non arrendersi, perché quelle donne hanno bisogno di lei. Sua figlia è sempre stata così, ci dice Suham con un sorriso: fin da bambina, aveva un atteggiamento molto materno nei confronti dei fratelli e delle sorelle minori.
Pur avendo la possibilità di lasciare l’Iraq, la dottoressa ha deciso “categoricamente” di restare: “Rimarrò finché sarà necessario”, afferma. “Ho un messaggio, ho una causa. Penso che [le vittime] abbiano ancora bisogno di aiuto e non voglio abbandonarle. Sono una donna yazidi e condivido il loro credo religioso, e questo mi aiuta molto a parlare con loro e a capirne i bisogni”.
Per l’ammirevole servizio e impegno a favore della sua comunità e di chi è costretto a fuggire in Iraq, la dottoressa Nagham è stata scelta come vincitrice regionale per il Medio Oriente e il Nord Africa del Premio Nansen per i Rifugiati dell’UNHCR 2022, prestigioso riconoscimento assegnato ogni anno a coloro che si sono distinti nel fornire aiuto a gruppi di persone sfollate o apolidi.
Gli sfollati yazidi continuano a vivere in condizioni di estrema povertà in campi, insediamenti informali o aree urbane, e alcune famiglie sono ancora alla ricerca dei propri cari scomparsi. Per molte di queste persone, il rientro a Sinjar non può avvenire a causa della mancanza di servizi pubblici come l’assistenza sanitaria e l’istruzione, della distruzione delle loro case, del perdurare di una situazione di instabilità e della mancanza di accesso alla giustizia. Inoltre, alcune donne, i cui figli sono nati durante le violenze, hanno difficoltà a reintegrarsi nelle loro comunità.
Finora, la dottoressa Nagham ha curato 1.200 vittime. La sua ONG conta oggi 50 dipendenti e due cliniche a Sinjar che offrono consulenza, cure psichiatriche e assistenza a coloro che fanno ritorno alle proprie case. Alcune sue ex pazienti sono diventate a loro volta attiviste per la pace e i diritti umani, il che la riempie di orgoglio e felicità.
Al campo di Rwanga, Leila, 42 anni, siede alla sinistra della dottoressa Nagham. Per quattro anni è stata costretta in schiavitù e torturata ripetutamente. Leila racconta che l’ISIS ha ucciso suo marito e i tre figli più grandi. “Ho perso così tanto, così tante persone… Non ho il coraggio di parlare delle atrocità che ho visto”.
La dottoressa inizia a piangere. Leila spiega come l’esperienza di prigionia abbia avuto ripercussioni sul suo corpo e sulla sua mente e sottolinea che in chi, come lei, sopravvive rimane la sensazione che il mondo li abbia dimenticati e abbia voltato pagina. Ecco perché le continue cure e attenzioni fornite dalla dottoressa Nagham sono così importanti.
“Ci ha sostenuto dal momento in cui siamo tornate a casa, e continua a farlo” conclude Leila. “Per noi è sempre presente”.
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