Con 250.000 iracheni ancora nei campi per sfollati interni dopo essere fuggiti dall’ISIS, la chiusura improvvisa di 14 siti alla fine del 2020 ha costretto molti a tornare in case distrutte e villaggi privi di servizi di base.
Alla fine dello scorso anno, le autorità hanno annunciato la chiusura del campo di Salamiyah, dando alla famiglia di Dahi e ad altri solo pochi giorni per fare i bagagli e tornare al villaggio di Risala, vicino al confine nord-occidentale dell’Iraq con la Siria. Al loro arrivo hanno trovato gran parte delle case e infrastrutture distrutte, compresa la piccola scuola locale.
“L’abbiamo trovata in rovina. Era abbandonata, dimenticata da tre o quattro anni”, ha detto Dahi. “Le case qui sono costruite con il fango, se si lascia una casa di fango senza manutenzione dopo un certo periodo di tempo crollerà. Abbiamo visto diverse case crollate”.
La sfida immediata per gli abitanti del villaggio era come provvedere a se stessi, non potendo coltivare la terra a causa della mancanza di materiali e attrezzature agricole, e senza lavoro o fonti alternative di reddito. Anche assicurarsi l’acqua era una grande sfida, dovendo fare affidamento su costose consegne via camion, spesso impossibili quando l’unica strada sterrata che porta al villaggio diventava un pantano dopo le tempeste invernali.
La precarietà della loro situazione è stata tragicamente evidente quando la figlia di tre mesi di un vicino di casa ha avuto la febbre. Ogni tentativo di raggiungere la più vicina città con un ospedale – a 12 chilometri – è fallito dopo che il loro veicolo è rimasto bloccato nel tentativo di percorrere la strada paludosa.
“La figlia neonata del mio vicino Abdulhadi si è ammalata. Non hanno potuto raggiungere un ospedale a causa delle condizioni della strada, ed è morta”, ha spiegato Dahi.
Più di 6 milioni di iracheni sono stati costretti a fuggire dalle loro case quando i militanti dell’ISIS hanno preso il controllo di ampie fasce di territorio nel 2014. Circa 4,8 milioni di persone sono tornate a casa, ma più di 1,2 milioni rimangono sfollate all’interno del paese.
Tra gli sfollati interni in Iraq, circa 250.000 vivevano in campi, dove le condizioni di vita sono basilari ma i servizi essenziali come riparo, scuole e assistenza sanitaria sono forniti dall’UNHCR, l’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati, e dai suoi partner.
Nell’ottobre 2020, il governo iracheno ha annunciato la chiusura improvvisa di 13 campi, colpendo più di 34.000 residenti, mentre altri campi sarebbero stati chiusi nei mesi successivi. La maggior parte delle persone colpite ha deciso di tornare volontariamente alla propria area di origine, ma deve ora fare i conti con proprietà e infrastrutture distrutte, insicurezza e mancanza di lavoro.
L’UNHCR ha sollevato le sue preoccupazioni con il governo, sottolineando che alcune delle chiusure sono state condotte senza un adeguato preavviso e consultazione con i residenti dei campi.
A seguito di una recente valutazione, l’UNHCR sta ora lavorando per asfaltare la strada che collega il villaggio di Risala alla città più vicina e riabiliterà anche la scuola locale e la pensione degli insegnanti.
Ma il futuro rimane incerto per Dahi e le altre 300 famiglie che vivono a Risala, mentre la siccità minaccia la loro capacità di avere accesso al cibo nei prossimi mesi.
“Le nostre condizioni di vita sono molto difficili. La nostra fonte di reddito è l’agricoltura e quest’anno a causa della siccità non abbiamo raccolti”, ha detto Dahi. “Abbiamo bisogno di aiuto. Nessuno può vivere di sola aria”.
Altri iracheni colpiti dalla chiusura dei campi affrontano una lotta simile. Nel villaggio di Tabouqa, a sud-ovest di Mosul, 37 famiglie sono tornate a casa alla fine dello scorso anno dopo la chiusura del campo di Hamam al Alil, solo per trovare un’accozzaglia di edifici in rovina e un villaggio privo anche dei servizi più elementari.
Un residente, Abdelwahed, 48 anni, ha descritto la situazione che lui e la sua giovane famiglia devono affrontare come disperata.
“I miei figli sono ancora piccoli e dovrebbero essere a scuola, ma non lo sono, perché non abbiamo scuole nel villaggio”, ha detto. “Se qualcuno ha bisogno di un medico, dobbiamo guidare per ore attraverso strade fangose per raggiungere un ospedale. Nel campo ricevevamo il kerosene, avevamo una scuola e l’assistenza sanitaria”.
La situazione ha lasciato Abdelwahed e altri abitanti del villaggio a desiderare un’alternativa che prima sarebbe sembrata impensabile.
“Siamo tutti sulla stessa nave che affonda. Nessuno vuole rimanere nei villaggi distrutti”, ha detto. “Vorrei che potessimo tornare alla miseria del campo. Almeno era meglio che vivere qui”, ha detto.
“Non sappiamo come ricominciare”, ha continuato Abdulwahed. “Abbiamo speso tutti i soldi che avevamo. Abbiamo bisogno di sostegno finanziario per comprare materiale agricolo e macchinari… in modo che possiamo iniziare a contare su noi stessi per ricostruire di nuovo le nostre vite, le nostre fattorie e il nostro villaggio”.
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