A 10 anni dall’inizio della crisi in Siria, milioni di rifugiati affrontano difficoltà senza precedenti a causa della crescente povertà, della mancanza di opportunità e dell’impatto del COVID-19.
“Il nostro obiettivo principale era quello di uscire ancora in vita da quella guerra”, ha detto Hala, raccontando la loro fuga dalla città di Hama nel 2011. “[In Libano] c’era un po’ di serenità […]. I nostri figli andavano ancora a scuola, stavano imparando, sarebbero diventati qualcuno in futuro e avrebbero reso orgogliosi la mamma e il papà”.
Ma con l’avanzare della crisi in Siria, anno dopo anno, le loro risorse sono diventate sempre più scarse e i debiti hanno cominciato ad accumularsi. I tre figli più grandi di Hala hanno dovuto abbandonare la scuola, e il figlio maggiore Amer, 16 anni, ha iniziato a lavorare per integrare il reddito del padre, che lavora alla giornata.
Purtroppo la situazione di Hala è la norma per le famiglie coinvolte nella più grande crisi di rifugiati del mondo.
Mentre il conflitto siriano entra nel suo secondo decennio, invece di diventare più facile, la vita quotidiana per i 5,6 milioni di rifugiati che vivono nei paesi della regione è più dura che mai.
La povertà e l’insicurezza alimentare sono in aumento, l’iscrizione a scuola e l’accesso all’assistenza sanitaria si stanno riducendo, e la pandemia di COVID-19 ha spazzato via gran parte del lavoro informale su cui i rifugiati fanno affidamento.
“Una cosa dopo l’altra, tutto quello che ho fatto […] negli ultimi sei o sette anni è sparito, non è rimasto nulla”, ha detto Yasser, il marito di Hala. “La situazione è molto dura […]; è entrata dentro di noi, i bambini ne sono stati colpiti e sono depressi”.
“Ho 16 anni – a questa età dovrei vivere i giorni migliori della mia gioventù”, ha aggiunto Amer, il loro figlio maggiore. “Abbandonare la scuola mi ha fatto sentire come se non fossi desiderato in questa vita. Lavoravo 12 ore al giorno, stando in piedi mentre dovrei essere a scuola a studiare”.
La crisi finanziaria in Libano ha fatto crollare la valuta e ha fatto salire i prezzi dei beni di prima necessità. A fine 2020, questo trend combinato con i devastanti effetti economici della pandemia di COVID-19 ha aumentato la quota di rifugiati siriani che nel paese vivono sotto la soglia di povertà estrema a quasi il 90% .
Sia Amer che suo padre Yasser hanno perso il lavoro durante la pandemia. Ora la famiglia deve lottare per mettere il cibo in tavola, con la paura di essere sfrattata dall’appartamento umido che ha portato due dei figli di Hala a soffire gravemente di asma.
La situazione ha influito anche sulla salute mentale della famiglia. Hala spesso trascorre giorni senza riuscire ad alzarsi dal letto, e sia lei che suo figlio Amer hanno avuto pensieri suicidi.
L’aumento dei problemi di salute mentale tra i rifugiati siriani è stato innescato dal lungo esilio, dalla pandemia e dal declino delle condizioni economiche. Alla fine del 2020, un call center in Libano gestito dall’UNHCR, l’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati, ha segnalato un aumento delle chiamate di rifugiati che pensavano al suicidio e all’autolesionismo.
Yasser ha riassunto la loro situazione, dicendo che nonostante la fuga dal conflitto in Siria: “È come se vivessimo una guerra quotidiana; una guerra silenziosa e domestica”.
In tutta la regione, il quadro per i siriani fuggiti dal conflitto negli ultimi dieci anni è simile. Originario di Homs, Ahmad, 45 anni, ha lasciato il paese alla fine del 2011 ed è andato in Libia, dove sperava che il numero relativamente basso di rifugiati siriani gli avrebbe offerto maggiori possibilità di trovare lavoro come piastrellista esperto.
“All’inizio, quando siamo arrivati qui, le cose andavano bene. Ma poi la situazione è cambiata. Abbiamo assistito alla guerra in Siria, poi abbiamo visto di nuovo la guerra qui in Libia”, ha detto Ahmad, riferendosi alla rinnovata violenza e instabilità scoppiata nel 2014, dopo la prima guerra civile del paese nel 2011.
“Il 2020 è stato l’anno più difficile per me. Non solo i combattimenti erano ancora in corso, ma è iniziata la pandemia del coronavirus”, ha detto Ahmad, che vive con sua moglie e cinque figli a Tripoli. “La mia più grande preoccupazione è come posso guadagnarmi da vivere al giorno d’oggi. Solo pochi anni fa era molto facile, c’erano molti lavori e potevo trovare lavoro ogni giorno. Ora non è più così”.
La situazione precaria della famiglia in Libia ha portato Ahmad a considerare di lasciare di nuovo la loro casa, ma lui e sua moglie Ghadir hanno detto di non poter contemplare il ritorno in Siria al momento.
Il protrarsi della crisi ha avuto un impatto sproporzionato su gruppi vulnerabili come i bambini – che costituiscono quasi la metà di tutti i rifugiati siriani – gli anziani, le persone che vivono con disabilità e le donne sole e le madri.
Asma*, 40 anni, è originaria di Raqqa in Siria, ma nel 2015 è fuggita con i suoi tre figli a Smirne, nella Turchia occidentale, che ospita il maggior numero di rifugiati siriani a livello globale, più di 3,6 milioni.
“Ho lasciato la Siria perché ho perso mio marito durante la guerra – è stato ucciso durante i bombardamenti”, ha spiegato Asma. “Quando sono arrivata in Turchia, ho preso in prestito denaro e ho iniziato a lavorare. Inoltre, alcune persone mi hanno aiutato quando sono arrivata qui. Ho iniziato a ricevere assistenza economica. I miei figli hanno iniziato ad andare a scuola. Ci sentivamo più sicuri qui”.
Ma dopo diversi anni in cui è stata in grado di mantenersi da sola e nonostante abbia trovato la sicurezza, la salute in declino di Asma e la difficoltà di accedere alle cure mediche a causa della barriera linguistica le impediscono di continuare il suo lavoro in una fabbrica di capi di abbigliamento e sta lottando per coprire le spese. Solo il suo secondo figlio Ahmed, 13 anni, va ancora a scuola.
“Il problema più grande per me ora è come pagare l’affitto e le bollette”, ha detto. “Grazie a Dio ci sono persone qui che ci aiutano con il cibo. Ma l’affitto e le bollette sono costosi e dobbiamo pagare l’elettricità, l’acqua e internet. Specialmente per mio figlio Ahmed, che studia online, abbiamo bisogno di internet”.
Un sostegno economico rinnovato e a lungo termine da parte della comunità internazionale è necessario per mitigare gli impatti economici del COVID-19 e fermare il declino delle condizioni di vita dei rifugiati. L’anno scorso, sono stati finanziati solo la metà dei fondi totali richiesti dalle organizzazioni umanitarie per soddisfare le crescenti esigenze dei rifugiati siriani e dei paesi che li accolgono, il livello più basso dal 2015.
Non si intravede la fine della crisi, e c’è il rischio che la diminuzione del sostegno internazionale e il deterioramento delle condizioni economiche per milioni di rifugiati e per i membri vulnerabili delle comunità locali che li ospitano, possano vanificare i progressi fatti e ridurre l’accesso all’istruzione e ai mezzi di sussistenza, minacciando il futuro di un’intera generazione. Molti sentono già che è troppo tardi.
Khalil, 18 anni, è arrivato da Aleppo in Giordania nel 2013 insieme alla sua famiglia, e si è stabilito nella capitale Amman. All’inizio, il giovane brillante e loquace ha potuto continuare a studiare in una scuola locale. Ma a soli 13 anni ha dovuto abbandonare gli studi e iniziare a lavorare per aiutare a mantenere la sua numerosa famiglia.
“In Siria volevo fare il medico, ma diventare un rifugiato ha cambiato le cose”, ha detto Khalil. “Ci sono ragazzi che hanno dovuto rinunciare ai loro sogni”.
Ora lavora sei giorni alla settimana come meccanico, guadagnando 7 dinari giordani (10 dollari) al giorno, nonostante i lunghi turni di lavoro. “È estenuante”, ha detto Khalil.
Come milioni di altri rifugiati siriani nella regione, nonostante la fuga dal conflitto Khalil ha visto evaporare le sue prospettive. A 10 anni dall’inizio della crisi, ora contempla il futuro con un senso di rassegnazione.
“La vita va avanti, comunque”, ha detto. “Questo è il mio destino; devo accettarlo e conviverci”.
Reportage di Dalal Harb a Beirut, Caroline Gluck a Tripoli, Cansin Argun ad Ankara e Nida Yassin ad Amman. Scritto da Charlie Dunmore.
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