Andrew Harper, Consigliere Speciale dell’UNHCR sull’Azione per il Clima, ci spiega il legame tra riscaldamento globale e migrazioni forzate e l’importanza vitale di intervenire con tempestività fin da subito.
Il cambiamento climatico è la crisi che caratterizza il nostro tempo e i suoi effetti colpiscono maggiormente i popoli più vulnerabili del mondo. Le persone costrette a fuggire e gli apolidi sono tra i gruppi più bisognosi di protezione.
A causa del rapido riscaldamento globale, gli eventi meteorologici estremi – forti piogge, siccità, ondate di caldo, tempeste tropicali – stanno diventando più imprevedibili, intensi e frequenti, e aumentano il rischio, improvviso o nel lungo periodo, di ulteriori calamità come inondazioni, smottamenti, erosione, incendi e desertificazione. Allo stesso tempo, l’innalzamento del livello del mare sta accrescendo le inondazioni costiere, l’erosione, la salinizzazione del terreno e il pericolo di inondazioni permanenti nelle aree a bassa quota.
Le comunità vulnerabili stanno già subendo l’impatto della crisi climatica sul settore alimentare, idrico, sui terreni coltivabili e su altri servizi ecosistemici necessari alla salute umana, al sostentamento, agli insediamenti e alla sopravvivenza. Tutto ciò colpisce soprattutto donne, bambini, anziani, persone con disabilità e popolazioni indigene.
La resilienza agli shock climatici, al degrado ambientale e alle migrazioni forzate è spesso minima in contesti fragili e in situazioni di conflitto. In sette dei dieci Paesi più vulnerabili e meno preparati ad affrontare i cambiamenti climatici è in corso un’operazione di mantenimento della pace o una missione politica speciale. Gli effetti del cambiamento climatico possono esacerbare conflitti e altri fattori di instabilità.
Le otto peggiori crisi alimentari del 2019, che hanno tutte quante colpito Paesi in cui opera l’UNHCR, sono state indotte sia da calamità naturali che da conflitti. Senza misure incisive volte a proteggere il clima e a ridurre il rischio di catastrofi, lo scoppio di calamità naturali potrebbe raddoppiare il numero di persone bisognose di assistenza umanitaria, con una media di oltre 200 milioni ogni anno entro il 2050.
In qualità di agenzia per la protezione dei rifugiati, nel nostro mandato rientrano tutti coloro che sono costretti a cercare riparo in un altro Paese a causa di conflitti o persecuzioni. Sebbene possa essere difficile stabilire un legame diretto tra cambiamento climatico e persone che fuggono oltre confine, si può tuttavia considerare il cambiamento climatico come un moltiplicatore del rischio, o della minaccia, che emergano altri fattori di fuga.
Di per sé il cambiamento climatico non porta al conflitto, ma aumenta l’insicurezza alimentare. Complica l’accesso ai mezzi di sussistenza e accresce la pressione sul sistema educativo e sui servizi sanitari. A ciò si aggiungono spesso difficoltà di governance e di accesso alle risorse complessive, e se ci si trova anche ad affrontare sfide derivanti da problemi socio-politici e religiosi o legati a strutture comunitarie, la combinazione di questi fattori potrebbe essere la scintilla che innesca la crisi.
A meno che tutti gli attori interessati non adottino misure concrete per attenuare tali vulnerabilità, i conflitti in futuro sono destinati ad aumentare. Attualmente è questo il nostro campo d’azione. Per poter prendere decisioni molto più consapevoli, dobbiamo integrare meglio le conoscenze attuali e gli strumenti che la scienza ci offre. Dobbiamo stabilire il nesso tra cambiamento climatico, vulnerabilità e migrazioni forzate per prevenire, con largo anticipo, gli effetti sulle popolazioni a rischio. Adottando approcci preventivi possiamo diventare un’agenzia meno reattiva e più preparata a fornire protezione e ad affrontare le sfide più urgenti del presente e del futuro.
La regione del Sahel è uno degli esempi più evidenti di come il cambiamento climatico interagisca negativamente con altre tendenze globali. L’area mostra infatti un massiccio aumento della popolazione, che, secondo le previsioni, raddoppierà nei prossimi venti o trent’anni. Allo stesso tempo, la Banca mondiale ha rilevato un ulteriore calo di produttività del territorio pari al trenta o quaranta per cento.
Nel complesso, dunque, si ha un aumento della popolazione, una diminuzione della produttività del suolo, e questioni di governance. L’insieme di questi fattori può minacciare la sopravvivenza dei gruppi più vulnerabili ed esacerbare la tensione nella regione, aumentando il rischio di conflitti.
Quindi, la questione che si pone è: sarà solo il Sahel a dover affrontare queste sfide, o è presumibile che anche altre regioni, in particolare in Africa occidentale o meridionale, dovranno fare i conti con tendenze simili? Considerare un conflitto solo quando scoppia non è di alcuna utilità. Dobbiamo individuare anticipatamente quelle aree in cui le dinamiche, le criticità e le debolezze di fondo verranno esacerbate per effetto dei cambiamenti climatici, per definire un piano d’azione prima dello scoppio di un conflitto.
Ogni regione ha le proprie sfide da affrontare in relazione al cambiamento climatico e in ogni contesto emergeranno vulnerabilità diverse. Tuttavia, è importante migliorare la nostra capacità di anticipare l’impatto del cambiamento climatico nelle varie regioni tra cinque, dieci, quindici anni, in modo da porre in atto programmi che già contengono indicazioni su come affrontare le criticità previste. Dovremmo investire ora, senza aspettare che le persone diventino talmente vulnerabili da essere costrette alla fuga.
Per fare questo, stiamo esaminando dei sistemi di modellazione e stiamo cercando di far tesoro delle lezioni apprese tramite la simulazione dei flussi migratori futuri in Centro e Sud America sulla base delle proiezioni climatiche. Stiamo pensando anche di utilizzare la metodologia di modellazione in altre aree, tra cui il Sahel, l’Africa meridionale e l’Asia meridionale.
Stiamo studiando la regione del Pacifico meridionale, che deve affrontare il rischio di un innalzamento del livello del mare. Come cambierà il concetto di integrità territoriale degli Stati? Quale effetto avrà sull’aumento dei casi di apolidia? Sono queste le domande che dobbiamo porci e a cui dobbiamo rispondere prima che sia troppo tardi.
Un’altra dinamica osservabile riguarda il fatto che quando le persone sono costrette a fuggire a causa dei cambiamenti climatici e dei conflitti, raramente fanno ritorno alle proprie abitazioni. In passato il rientro al termine di un conflitto era una soluzione veramente duratura. Ora invece i cambiamenti climatici e il degrado ambientale rendono le zone di rientro troppo rischiose o troppo fragili per garantire la sussistenza di grandi popolazioni, e molte persone non hanno alcuna possibilità di tornare. Questo cambia il modo in cui l’UNHCR deve cercare soluzioni durature in futuro.
La stragrande maggioranza delle persone che fuggono a causa degli stravolgimenti del clima rimane entro i confini dei propri Paesi. Nel corso degli anni, l’UNHCR ha svolto un ruolo importante nel sostenere lo sviluppo di leggi e politiche applicabili agli sfollati interni, a livello internazionale, regionale, nazionale e subnazionale. Il nostro obiettivo è rafforzare la resilienza nazionale e la capacità di fornire sostegno alla popolazione, per evitare che sia costretta a spostarsi oltreconfine.
Il quadro giuridico globale per la protezione internazionale dei rifugiati è applicabile nel caso di una persona costretta a fuggire in un Paese diverso dal proprio, e può fungere da base per estendere efficacemente la protezione internazionale. In particolare, se la fuga è causata non solo dai disastri provocati dal clima ma anche da violenze, conflitti o persecuzioni, un individuo può ottenere lo status di rifugiato ai sensi della Convenzione sui rifugiati del 1951. Di per sé non esiste il rifugiato climatico, ma ciò non significa che la Convenzione non possa essere applicata in determinate situazioni.
Inoltre, la Convenzione dell’OUA e la Dichiarazione di Cartagena prevedono criteri più ampi per il riconoscimento dello status di rifugiato, inglobando nella definizione coloro che fuggono dal proprio Paese a causa di “circostanze che abbiano gravemente turbato l’ordine pubblico”. Questi strumenti possono fornire un certo grado di sicurezza e protezione in caso di migrazioni forzate derivanti da calamità naturali. Il nostro obiettivo è quello di garantire che i meccanismi di protezione esistenti vengano pienamente applicati.
La decisione del Comitato è stata interessante perché ha rilevato che, in base alla normativa internazionale in materia di diritti umani, anche coloro che non sono “rifugiati” hanno il diritto di non essere rimpatriati in un Paese se ciò rischiasse di ledere in maniera irreparabile il loro diritto alla vita. Il Comitato ha affermato che “senza un forte impegno a livello nazionale e internazionale, gli effetti del cambiamento climatico negli Stati di accoglienza possono esporre gli individui a una violazione dei loro diritti” tale da impedire ad altri Paesi di rimpatriarli.
Nel caso specifico, il Comitato ha stabilito che non vi è stata violazione del diritto alla vita in quanto, nonostante la grave situazione a Kiribati, sono state messe in atto misure di protezione sufficienti. Tuttavia, la decisione rappresenta un importante riconoscimento del fatto che l’impatto dei cambiamenti climatici potrebbe portare in futuro alla necessità di protezione internazionale, anche se questo non si è applicato nel caso di Ioane Teitiota. Ciò apre la strada a una maggiore analisi e revisione delle esigenze di protezione internazionale.
Anche se nel caso in questione il Comitato ha ritenuto che non vi fossero motivi sufficienti per concedere lo status di rifugiato al richiedente, data la probabilità di un aumento del livello del mare in luoghi come Kiribati tali motivi potrebbero essere riconosciuti validi in futuro. Questo stabilisce un precedente da cui partire per approfondire lo studio delle misure di attenuazione e adattamento necessarie per consentire alle persone di vivere in sicurezza sul proprio territorio e con le loro comunità. Questo è il punto essenziale. Questi luoghi diventeranno sempre meno abitabili in futuro, quindi dobbiamo anticipare il dibattito su come sostenere i programmi di resilienza, preparazione e adattamento in queste aree, sia per le persone costrette a fuggire che per le comunità ospitanti.
Da qui l’importanza del Global Refugee Forum (GRF) tenutosi a Ginevra nel 2019 per la creazione di partenariati strategici con le agenzie di sviluppo e le istituzioni regionali. Il passo successivo è diventare molto più lungimiranti. Dobbiamo essere un’organizzazione pronta ad affrontare le sfide del futuro, non solo quelle del presente. Il nostro obiettivo non è estendere il nostro mandato, ma fare in modo che venga garantita la protezione a coloro che ne avranno bisogno.
Nel corso dell’anno abbiamo sviluppato un Quadro strategico sull’azione per il clima, che prevede tre ambiti fondamentali di intervento. Il primo riguarda il lavoro giuridico e normativo in materia di protezione delle persone costrette a fuggire a causa dei cambiamenti climatici. L’obiettivo generale è sostenerle nella richiesta di protezione, agevolando l’interpretazione e l’applicazione delle normative e delle linee politiche pertinenti, sviluppando linee guida e catalizzando il dibattito internazionale. Inoltre il Dipartimento per la Protezione Internazionale ha di recente pubblicato un documento che racchiude una serie di considerazioni giuridiche sui bisogni di protezione internazionale delle popolazioni.
Il terzo ambito di intervento riguarda le azioni intraprese dall’UNHCR per promuovere a una svolta ecologica. Stiamo cercando di migliorare la sostenibilità ambientale riducendo le nostre emissioni di gas serra e minimizzando gli impatti negativi sull’ambiente. Un punto fondamentale sarà il miglioramento della raccolta dati sul nostro uso energetico e l’individuazione di aree in cui è possibile passare all’uso di energie sostenibili e preferibilmente rinnovabili.
Il secondo ambito di intervento è il più rilevante in relazione a questo punto. Riguarda le misure che stiamo ponendo in atto per migliorare la resilienza di chi è costretto a fuggire a causa del clima e di altri rischi ambientali e per rafforzare la preparazione e la resilienza in caso di disastri naturali. Ciò avviene, tra le altre cose, attraverso il sostegno alla gestione ambientale e allo sviluppo di energie rinnovabili in contesti di migrazioni forzate.
Consideriamo, a titolo di esempio, il campo di Kutupalong nel distretto di Cox’s Bazar, in Bangladesh, dove, a partire dall’agosto del 2017, sono confluiti oltre 700.000 rifugiati Rohingya fuggiti dal Myanmar. Al loro arrivo, l’unica fonte di combustibile domestico erano le vicine foreste, e in breve tempo l’area è stata abbattuta. Subito dopo abbiamo provveduto a fornire gas di petrolio liquefatti, eliminando così il bisogno di tagliare alberi. Tale scelta si è rivelata positiva sia per la salute delle persone, non più costrette a respirare il carbonio emesso dalla combustione degli alberi, sia per le aree boschive intorno al campo: la stabilizzazione del suolo, infatti, ha contribuito a ridurre il rischio di catastrofi e di frane. La disponibilità di energia alternativa pulita e la riforestazione ha reso l’intera comunità più resiliente a calamità naturali e a eventi meteorologici estremi.
Ci stiamo anche adoperando per ampliare i micro-progetti e cercare di investire nell’ambiente o in iniziative energetiche che siano in linea con i programmi nazionali per l’ambiente e l’adeguamento e i piani d’azione per l’energia sostenibile. È fondamentale agire su larga scala. Non basta piantare 100 ettari di alberi: occorre piantarne 100.000. Dobbiamo estendere il nostro ambito d’intervento e assicurarci che la comunità locale veda i vantaggi concreti derivanti da tutto ciò.
Chi fugge spesso dispone di mezzi di sussistenza precari, un accesso minimo o addirittura nullo alle reti di sicurezza sociale e ai servizi sanitari. Queste vulnerabilità colpiscono ancora più severamente coloro che si trovano nei “punti caldi del cambiamento climatico”, o in luoghi dove i mezzi di sussistenza sono già a rischio a causa del clima e del degrado ambientale. La pandemia di COVID-19 aggiunge un’ulteriore criticità.
Ad esempio, alcune popolazioni che vivevano in campi o insediamenti vulnerabili in Africa occidentale, in Sud Africa o in Asia meridionale avevano un lavoro, che hanno perso a causa della pandemia. Quindi, il fatto di non poter più immettere reddito all’interno degli insediamenti ha acuito le tensioni e le criticità. Ha creato una doppia difficoltà, esacerbando anche parte del degrado ambientale in alcune di quelle aree.
Ma la risposta globale al COVID-19 potrebbe contenere alcune lezioni utili. Dimostra infatti che per attenuare l’impatto di una calamità occorre essere pronti ad agire con tempestività e in modo olistico. Se trascuriamo questo approccio, allora ci troveremo di fronte a conseguenze gravi. La sfida che si pone nella lotta al cambiamento climatico è la necessità di attuare azioni di risposta più complesse. Come ha recentemente affermato l’attivista indigeno Hindou Ibrahim durante la sessione di apertura del Dialogo dell’Alto Commissario: “Non si può indossare una mascherina per proteggerci dai cambiamenti climatici. Non esiste nessun vaccino per questa situazione”. Si tratta di un’emergenza a cui dobbiamo rispondere con maggiore tempestività e decisione rispetto a quanto si è fatto con il COVID-19, ma non è quello che sta succedendo al momento.
Se potessimo comprimere il tempo tra il presente e i prossimi venti o trent’anni e le persone potessero vedere la portata del disastro che ci sta per colpire, allora potremmo vedere un’azione di risposta. Purtroppo, ad oggi il problema è stato molto sottovalutato e diverse organizzazioni, compresa la nostra, non hanno ancora maturato il necessario senso di urgenza. È un problema difficile da risolvere. Sebbene nessuno neghi veramente l’esistenza di un cambiamento climatico in atto, la sistematica incapacità di attenuarne l’impatto e di prepararsi ad affrontarlo in maniera adeguata è incomprensibile ed è una forma più sottile di negazione che deve essere superata.
Abbiamo sviluppato il Quadro strategico: ora dobbiamo renderlo operativo. Ci recheremo nelle varie regioni, individueremo i nostri partner all’interno del team nazionale delle Nazioni Unite, delle autorità del Paese e delle comunità sul campo. Insieme stabiliremo le priorità e le aree dove possiamo fare la differenza.
Dobbiamo capire come vogliamo posizionarci, non solo per poter rispondere alle attuali esigenze di protezione, ma piuttosto per diventare un’agenzia di protezione proattiva che riduca il bisogno di fornire protezione in futuro? Penso che sia anche ciò che i governi vogliono da noi.
Il Forum Globale sui Rifugiati (GRF) e il Global Compact sui Rifugiati dovrebbero spronarci, così come il quadro di condivisione delle responsabilità, a ridurre l’impatto del cambiamento climatico in futuro sulle popolazioni rifugiate e ospitanti. Ciò implica collaborare con gli attori dello sviluppo, il settore privato, le comunità e le autorità nazionali perché questo ci aiuterà a sviluppare una strategia unificata; lavorando insieme, possiamo ottenere risultati migliori su larga scala, che abbiano un impatto reale e siano ancorati alle esigenze specifiche delle varie comunità.
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