I dati mostrano che in tutto il mondo le donne e le ragazze costrette a fuggire stanno subendo un aumento della violenza di genere durante la pandemia di COVID-19.
Quando Mónica è entrata in travaglio, lui l’ha lasciata in ospedale a partorire da sola, lontana dalla madre e dalle sorelle in Venezuela.
Sei mesi dopo, ha trovato un nuovo compagno. Tutto andava bene, racconta, fino all’arrivo del COVID-19.
“Penso che possa aver avuto qualcosa a che fare con l’isolamento, che lo ha reso molto stressato e costantemente preoccupato perchè era al verde”, ha ricordato. “Ha cominciato a ferirmi e a dirmi cose davvero terribili… Non mi lasciava usare Facebook o parlare con mia madre o con le mie sorelle. Controllava quello che indossavo ed è arrivato a dare fuoco ai miei vestiti”.
All’inizio di aprile, più di metà della popolazione mondiale affrontava il lockdown, e donne con partner violenti come Monica si sono ritrovate intrappolate in casa con i loro carnefici e tagliate fuori dal sostegno di amici e familiari. Nei mesi successivi all’inizio dello scoppio dell’epidemia UN Women, l’ente delle Nazioni Unite per l’uguaglianza di genere e l’empowerment femminile, ha avvertito della presenza di una pandemia ombra, mentre ogni tipo di violenza contro le donne e le ragazze si intensificava, soprattutto la violenza domestica.
Le donne rifugiate e sfollate erano maggiormente a rischio di violenza di genere (GBV) anche prima del COVID-19. La pandemia ha aumentato la loro vulnerabilità.
Mentre i dati sono emersi con il tempo, con le donne costrette a fuggire spesso spaventate o impossibilitate a cercare aiuto, alcuni modelli stanno diventando chiari. Il Ministero della Salute della Colombia ha riferito un aumento di quasi il 40% degli incidenti di violenza di genere (GBV – Gender-Based violence) che hanno colpito la popolazione venezuelana tra gennaio e settembre di quest’anno, rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso.
Rogmalcy Vanessa Apitz, avvocato venezuelano di 37 anni, che ha aiutato ad avviare una fondazione no-profit a Cúcuta per fornire sostegno alle donne venezuelane che subiscono GBV, ha detto che lei e i suoi colleghi volontari si stanno occupando di circa 100 casi al giorno, rispetto a circa 15 casi al giorno prima della pandemia.
“L’isolamento dovuto al lockdown ha portato davvero a molta violenza”, ha detto. “Il fatto di non poter uscire e guadagnarsi da vivere è una grande fonte di stress per le persone”.
Risultati simili stanno venendo fuori da altri paesi con popolazioni significative di persone costrette a fuggire. Il Global Protection Cluster – una rete di ONG e agenzie delle Nazioni Unite guidata dall’UNHCR che fornisce protezione alle persone colpite da crisi umanitarie – ha notato in agosto che la violenza di genere è più frequente nel 90% delle sue operazioni, anche in Afghanistan, Siria e Iraq. Nel frattempo, quasi tre quarti delle donne rifugiate e sfollate intervistate di recente dall’International Rescue Committee in tre regioni dell’Africa hanno segnalato un aumento del GBV nelle loro comunità.
Proprio come sono aumentati i livelli di violenza contro le donne, il lockdown e altre restrizioni al movimento hanno reso più difficile per le persone sopravvissute denunciare gli abusi e chiedere aiuto. Le donne rifugiate spesso non hanno accesso alle strutture sanitarie pubbliche e ad altri servizi sociali fondamentali e dipendono dai servizi disponibili attraverso le ONG e le agenzie delle Nazioni Unite. Ma il COVID-19 ha costretto molti di questi servizi a chiudere e nei campi dal Kenya al Bangladesh, gli operatori umanitari non hanno potuto fare visita ai rifugiati o organizzare attività di prevenzione.
“A marzo ci siamo resi conto di non essere in grado di svolgere le nostre normali attività”, ha detto Gabriela Cunha Ferraz, funzionaria per la violenza di genere dell’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) nel campo rifugiati di Kakuma, nel Kenya nord-occidentale. “Ci ha costretti a pensare a diversi modi per raggiungere le persone”.
Ferraz e i suoi colleghi hanno aggiunto un account WhatsApp al loro numero verde, in modo che i sopravvissuti isolati in casa con i loro carnefici potessero comunicare in privato con un assistente sociale. Hanno anche organizzato un programma radiofonico mensile che va in onda su una stazione radio della comunità, ampiamente ascoltato tra i rifugiati del campo. Il personale si occupa ogni mese di diversi argomenti relativi alla violenza di genere e dice agli ascoltatori come possono accedere ai servizi attraverso le linee telefoniche di assistenza.
In tutto il mondo, l’UNHCR e le sue organizzazioni partner hanno affrontato un processo simile di adattamento dei programmi GBV in modo che le donne possano continuare ad accedervi in modo sicuro.
In molti luoghi, ciò ha comportato il passaggio a gruppi di supporto online e alle consulenze telefoniche. In Libano, ad esempio, il personale GBV è passato dalla gestione di sessioni di prevenzione per le donne rifugiate in spazi fisici sicuri a spazi online. Le donne ricevono dati per connettersi a internet e poter partecipare alle sessioni online, ma Martin De Oliveira Santos, funzionario per la protezione dell’UNHCR in Libano, ha riconosciuto che ci sono altri ostacoli alla fornitura di servizi a distanza.
“Sappiamo che in Libano i cellulari non sono sempre nelle mani delle donne; a volte sono controllati dai mariti o dai padri”, ha detto. “Ci troviamo anche di fronte a diversi livelli di alfabetizzazione digitale”.
Molte delle donne rifugiate Rohingya che vivono nei campi nel distretto di Cox’s Bazar, in Bangladesh, non hanno cellulari per chiamare i numeri verdi, secondo Kosida, una rifugiata e volontaria di 19 anni che va porta a porta nel suo isolato del campo di Kutupalong per condividere informazioni sui servizi disponibili per le persone sopravvissute a GBV. L’isolamento ha reso più difficile aiutarle ad accedere ad un supporto specializzato, ma ha detto che il problema più grande è la riluttanza delle donne a parlare contro i partner violenti.
“È sempre difficile per le donne parlare contro gli uomini, protestare o denunciare, perché dipendono dagli uomini per la loro vita”, ha detto. “Se le donne non sono indipendenti, se non si guadagnano da vivere da sole, sarà sempre così”.
Quando è necessario un intervento di persona, e l’isolamento impedisce agli operatori umanitari di muoversi all’interno delle comunità, i volontari rifugiati come Kosida sono spesso il collegamento critico tra i sopravvissuti e i servizi GBV.
A Kakuma, Ferraz e il suo team si affidano ai rifugiati operatori delle comunità, assunti e formati da un’organizzazione partner, il Danish Refugee Council, per essere i loro “occhi e orecchie nella comunità”, mentre le restrizioni dovute al COVID-19 rimangono in vigore.
“Sono rifugiati che vivono nei campi e sono stati formati per identificare e segnalare in modo sicuro i casi di GBV”, ha detto. “Quindi, se c’è una segnalazione di violenza di genere all’interno della comunità, possono controllare se la persona sopravvissuta è al sicuro e segnalare immediatamente il caso a un assistente sociale”.
Mary Husuro, 26 anni, rifugiata sud sudanese che vive nel campo di Kakuma, è diventata un’operatrice della comunità in seguito alla sua esperienza di violenza per mano del suo ex marito. “Sentivo che non c’era nessun aiuto, ma quando ho conosciuto il Danish Refugee Council sono stata aiutata e mi è stata data una consulenza, e ora sono io quella che sta aiutando”.
All’inizio della pandemia, ha detto, “c’è stata molta violenza [di genere], ma le donne sono rimaste in silenzio per la paura del coronavirus”.
Attraverso le attività di sensibilizzazione degli operatori della comunità, ha detto che le donne del campo sono ora consapevoli dell’aiuto a loro disposizione.
Nabila Berm, una rifugiata siriana che vive in Giordania e che fa parte di un gruppo di giovani rifugiate e di donne giordane volontarie che realizzano video animati per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla violenza di genere, ha detto che i sopravvissuti della sua comunità hanno avuto la stessa paura di chiedere aiuto all’inizio della pandemia.
“Non sapevano dove potevano andare. Avevano paura di trasferirsi a casa di un’amica perché avevano paura di prendere il COVID”, ha detto, aggiungendo che, anche se ora c’è più consapevolezza su quali numeri chiamare per ricevere aiuto, il rischio di violenza è aumentato con l’aggravarsi della situazione economica.
“Sento più spesso parlare di donne che subiscono violenza perché tutti stanno a casa e ci sono meno soldi. La gente si arrabbia e si sente frustrata”, ha detto. “Sono preoccupata che a causa di questo, vedremo sempre più casi”.
A Cúcuta, Monica alla fine è stata aiutata quando un amico le ha parlato di una ONG locale chiamata Corprodinco che collabora con l’UNHCR per gestire un rifugio per le persone sopravvissute a GBV. Il suo ragazzo non le permetteva di uscire di casa ma, con l’aiuto della polizia, Corprodinco è riuscita a portarla al rifugio. Lì ha ricevuto consulenza e ha sviluppato nuove abilità, come il cucito, che spera le serviranno per sostenersi da sola quando sarà il momento.
Spesso si chiede se le cose sarebbero state diverse per lei se fosse tornata a casa in Venezuela, con la madre e le sorelle a prendersi cura di lei. “Siccome ero sola qui in Colombia, senza nessuno che mi aiutasse o mi sostenesse, [il mio ragazzo] si è approfittato di me”, ha detto.
“Ho provato molte volte ad andarmene, ma avevo paura. Come rifugiata dal Venezuela, ho provato la fame e ho dormito per strada, e non volevo passarci di nuovo. Ma non è così che dovrebbe essere. Nessuno dovrebbe subire violenze domestiche”.
Scritto da Kristy Siegfried, con aggiornamenti di Jenny Barchfield a Città del Messico, Lilly Carlisle ad Amman, Giordania, e Iffath Yeasmine a Cox’s Bazar, Bangladesh.
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