6 volti della crisi nel Sahel
Testo di Kathryn Mahoney
Foto di Sylvain Cherkaoui
17 Aprile 2020
6 volti della crisi nel Sahel
Testo di Kathryn Mahoney
Foto di Sylvain Cherkaoui
17 Aprile 2020
In Burkina Faso, quasi nessun luogo è sicuro.
Gruppi armati, estremisti e bande criminali seminano il terrore ogni giorno, uccidendo chi si rifiuta di combattere al loro fianco. Gli assassini uccidono intere famiglie. Stuprano e torturano le donne. Distruggono tutto ciò che simboleggia lo stato: scuole, stazioni di polizia, persino ospedali.
Chi sopravvive a un attacco sa di poter essere fortunato solo una volta, quindi scappa. Negli ultimi 15 mesi, 800.000 burkinabé sono fuggiti dalle loro case in cerca di salvezza. Alcuni attraversano il Mali o il Niger, dove le condizioni possono essere altrettanto pericolose. Altri cercano rifugio in Burkina Faso. Ma man mano che la violenza si diffonde, molti fuggono per la seconda e la terza volta.
La vita quotidiana in Burkina Faso, una nazione senza sbocco sul mare di 19 milioni di abitanti, è precaria. Vi presentiamo sei persone – fotografate e intervistate all’inizio di febbraio 2020 – le cui vite sono state sconvolte.
La violenza nel Sahel – una fascia arida che si estende per migliaia di chilometri lungo il confine meridionale del Sahara – è esplosa dopo la rivoluzione del 2011 in Libia e la rivolta del 2012 in Mali. Uomini armati hanno travolto le frontiere, sfruttando le tensioni etniche, la povertà e la debolezza dei governi per terrorizzare le popolazioni locali. Quando lo spargimento di sangue ha raggiunto il Burkina Faso, circa quattro anni fa, ha messo fine alla pace che il Paese conosceva da tempo.
Per anni, le persone in fuga dal conflitto nel vicino Mali sono fuggite in Burkina Faso, e circa 25.000 rifugiati vivevano nei campi rifugiati in tutto il paese. Molti di questi insediamenti sono stati attaccati più di una volta e la minaccia della violenza rende quasi impossibile per gli operatori umanitari dell’UNHCR, l’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati, e di altre organizzazioni raggiungere alcune delle persone costrette a fuggire. È diventato troppo pericoloso anche tenere aperti i mercati e le scuole. I posti di lavoro stanno scomparendo.
I rifugiati si trovano di fronte a una scelta impossibile: rimanere e rischiare di essere attaccati, o tornare a casa in un paese ancora in crisi. Alcuni stanno tornando in Mali, anche in zone così pericolose che i militari e le forze di difesa nazionali non possono entrare.
Ora i burkinabè stanno accogliendo i loro concittadini. Ma le comunità sono a un punto di rottura. Già alle prese con la povertà, con le scuole chiuse e con un sistema sanitario fragile, ora si trovano di fronte a un’ulteriore minaccia: il nuovo coronavirus.
Per rallentare la pandemia, le frontiere sono state sigillate e le scuole chiuse, è stato imposto il coprifuoco dalle 19:00 alle 05:00, la circolazione è limitata da e per le città con casi confermati di COVID-19, e sono vietati gli incontri di più di 50 persone.
Sfollati interni nel Sahel
Sfollati interni in Burkina Faso
Fonte: Governo
25 Marzo 2020
Sfollati interni in Mali
Fonte: Governo
29 Febbraio 2020
Sfollati interni in Niger
Fonte: Governo
31 Marzo 2020
La Sopravvissuta
“Sono così traumatizzata che non riesco neanche a ricordare cosa è successo. Non so neanche cosa sto dicendo.”
—Hawa, 57 anni
Hawa era a casa a Boukouma quando suo nipote ha avvertito la famiglia che si stavano avvicinando degli uomini armati. In pochi secondi, due dozzine di uomini in motocicletta sono arrivati e hanno aperto il fuoco mentre lei e altre donne si nascondevano dentro casa. “Hanno ucciso mio marito e suo fratello mentre avevano le mani in alto”, ha detto.
Hawa ha seppellito i morti il giorno dopo, poi è fuggita con 32 membri della sua famiglia. Ora ha trovato una relativa sicurezza nella casa di suo figlio a Kaya, 150 chilometri a sud. Ma ha incubi, si sveglia ogni notte urlando, colpi di pistola fantasma le ronzano nelle orecchie. “Sono una vedova di questo conflitto”, ha detto.
“Niente mi ha preparato a ciò che ho visto in Burkina Faso… Mi ha particolarmente colpito la situazione di tante donne che hanno subito violenze, i cui mariti sono stati portati via o uccisi, i cui figli sono stati separati da loro.”
–Filippo Grandi, Alto Commissario ONU per i Rifugiati, su France24
L’Ospite
“Come capo è mio dovere accogliere chi viene a chiedermi aiuto.”
— Dianbendé, 67 anni
Il leader della comunità Dianbendé ospita oggi più di 2.500 sfollati burkinabé sulla sua proprietà, un numero che cresce ogni giorno. Offre cibo, riparo e acqua – spesso a sue spese. Con una gamba malandata, si muove con difficoltà e fa fatica a provvedere anche alla sua famiglia, ma accoglie ogni persona che arriva.
“All’inizio pensavamo che uccidessero solo uomini. Ma poi abbiamo capito che avrebbero ucciso anche donne e bambini”, ha detto Dianbendé. “Sono disabile. Non ho niente da dare. Ma è mio dovere cercare di migliorare questa situazione”.
Con oltre 800.000 persone costrette a fuggire, gli esodi in Burkina Faso sono decuplicati nell’ultimo anno. Oltre il 90% degli sfollati vive con famiglie ospitanti, e l’UNHCR stima che nel Paese vi siano ancora più di 35.000 famiglie bisognose di alloggio.
Il Volontario
“I rifugiati mi dicono che quello che faccio è nobile, ma onestamente ho paura. Corro questi rischi perché amo il mio lavoro. Mi impegno a difendere i nostri diritti umani.”
—Ilyas, 30 anni
Ilyas lavora per l’UNHCR nell’ambito del Programma di volontariato dell’ONU nella città di Gibo e nel campo rifugiati di Mentao, nel nord del Burkina Faso. Le condizioni sono così rischiose che è uno dei due soli membri dello staff dell’UNHCR. Aiuta a garantire ai rifugiati l’accesso al cibo, all’acqua e all’alloggio. Come rifugiato maliano, si sente onorato di lavorare per l’UNHCR, ma teme che questo possa renderlo un bersaglio.
I gruppi armati in Burkina Faso hanno ucciso funzionari governativi, operatori sanitari, insegnanti e altri simboli dello stato. A volte hanno preso di mira anche organizzazioni umanitarie, rubando veicoli e rapendo il personale.
La Madre
“Mia figlia è andata nel panico quando ha sentito i proiettili e ora va sempre nel panico. Tutto ciò che desidero è che un giorno mia figlia non abbia più attacchi di panico.”
— Leila, 30 anni
Leila è fuggita dalle violenze in Mali nel 2012 e ha vissuto nel campo rifugiati di Goudoubo fino al 2019, quando uomini armati in motocicletta hanno attaccato il campo per tre volte.
Da quando la figlia di dieci anni di Leila, Rahmata, è stata testimone di uno degli attacchi, non è più stata la stessa. Leila stessa dice di essere “profondamente” colpita dal numero di persone che hanno mostrato segni di disagio psicologico in un clima di crescente insicurezza.
“Fa davvero male. E’ difficile essere madre e vederlo”, ha detto. “Continuo a pregare per la pace”.
Fino all’ultima ondata di violenza, quasi 9.000 rifugiati vivevano a Goudoubo, ma circa la metà sono poi tornati in Mali, mentre il resto si è trasferito in altri luoghi del Burkina Faso. Il campo è ora vuoto.
L’Operatore Umanitario
“Questo mi fa male. Il mio Paese è sotto attacco e non possiamo dare alla gente la protezione che merita.”
—Eric
Nato e cresciuto in Burkina Faso, Eric lavora come funzionario per la registrazione dell’UNHCR nel nord-est del paese, non lontano dai confini con il Niger e il Mali. Lavora nel campo di Goudoubo dal 2012, quando i rifugiati maliani hanno iniziato a cercare sicurezza nel suo Paese. Sente una certa affinità con i rifugiati che serve.
“Sono stato un fratello per i rifugiati, e loro per me”, ha detto.
Ora che il conflitto si è riversato nel suo Paese, Eric dice che i rifugiati gli stanno offrendo il loro sostegno. Si identificano con la sua tristezza. Ora che le zone dove vivono i rifugiati sono più pericolose, Eric non può vederle così spesso, se non addirittura mai. Si sente “debole e preoccupato”.
Uno studio dell’UNHCR ha rilevato che il 38% dello staff che in tutto il mondo lavora direttamente con i rifugiati o con gli sfollati era a rischio di stress traumatico secondario, un disturbo che può portare all’esaurimento fisico, mentale ed emotivo.
Prevalente tra le persone che lavorano sotto stress emotivo per lunghi periodi, il disturbo può rendere impossibile lo svolgimento delle normali funzioni quotidiane e causare sentimenti negativi verso se stessi o verso il mondo.
La Persona del Luogo
“Questa situazione ha messo sottosopra la nostra vita, ma non possiamo allontanarli. Cosa potremmo fare, dire loro di andarsene per farsi uccidere?”.
— Yobi
Yobi Sawadogo è consigliere del sindaco di Kaya, una città che nel suo ultimo censimento (nel 2012) contava 66.000 residenti e che ora ospita più di 300.000 sfollati Burkinabè. Il governo locale accoglie le persone in difficoltà, ma l’afflusso di nuovi arrivati ha cambiato drasticamente la vita quotidiana. Le file per prendere l’acqua si allungano e i centri sanitari sono sovraffollati. I mercati sono ancora ben riforniti, ma solo perché chi è fuggito qui non ha soldi per comprare cibo.
Nonostante le sfide, Yobi ha detto che la sua città continuerà ad accettare coloro che cercano sicurezza, in parte per solidarietà e in parte per paura. “Noi diciamo che quello che è successo a loro potrebbe accadere a noi”, ha detto, “Non possiamo allontanare le persone”.
Fino al 2016, il Burkina Faso è stato un modello di convivenza relativamente pacifica tra comunità etnicamente diverse e un rifugio sicuro per le persone costrette a fuggire. La violenza in quel Paese è senza precedenti, e il governo è alle prese con la gestione della portata dei bisogni umanitari. Ma per ora, molti dormono ancora all’aperto, esposti alle intemperie e ad altri pericoli, e hanno un forte bisogno di un migliore accesso all’acqua e alle strutture igienico-sanitarie.
L’UNHCR e altre agenzie delle Nazioni Unite hanno richiesto 255 milioni di dollari a livello globale per sostenere gli sforzi del governo per combattere il COVID-19 nelle aree che ospitano rifugiati e sfollati interni.
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