Di Alessandro Lanni
Lunedì 27 novembre, il governo ha rilasciato i nuovi numeri sugli sbarchi di migranti e rifugiati in Italia nel 2016. Dal 1 gennaio sono arrivate 171.299 persone sulle nostre coste meridionali, una cifra che in undici mesi supera già i 153.842 arrivi totali del 2015*.
Un trend in aumento, quindi, che tuttavia è presto contraddetto se si allarga l’obiettivo e si considera il totale degli sbarchi in Europa: a oggi sono quasi 350mila gli arrivi via mare attraverso il Mediterraneo, ovvero circa un terzo di quelli registrati a fine 2015.
Quel che è certo è che il numero di morti continua ad aumentare. Il 30 novembre sono già 4690 i morti e i dispersi nel Mediterraneo, il 31 dicembre dello scorso anno erano 3771.
Come valutare questi dati? Si tratta di cambiamenti che hanno numerose cause e di diversa natura. A partire dalle mutazioni geopolitiche in corso in Siria, in Iraq, nell’Africa subsahariana e nel Maghreb, dove si aprono e chiudono i rubinetti dei flussi di migranti forzati. E, naturalmente, dall’accordo tra Ue e Turchia che ha stravolto la mappa degli attraversamenti del Mediterraneo, alzando un muro di fatto invalicabile sull’Egeo.
Una trasformazione dello scenario che non è solo questione di numeri, ma anche di composizione delle migrazioni: in Italia, per esempio, la Nigeria è divenuta la prima nazionalità negli arrivi nel 2016 (era l’Eritrea nel 2015).
Per provare a orientarsi, vale la pena mettere a confronto alcune ulteriori cifre.
Malgrado ottobre e novembre siano stati due mesi eccezionali per gli arrivi in Italia (rispettivamente 27384 e 3218 secondo l’Unhcr), mettere a confronto il trend degli arrivi e delle richieste d’asilo aiuta a illuminare il nuovo, provvisorio, corso in Europa e soprattutto nel nostro paese, tenendo tuttavia presente che le domande d’asilo non sono esattamente un sottoinsieme degli sbarchi. In altre parole, non tutti i richiedenti asilo sono arrivati via mare. A fronte di un numero di sbarchi in Italia pressoché identico tra i primi nove mesi del 2015 e quelli del 2016 (132mila circa in entrambi i casi), quest’anno le domande d’asilo sono aumentate addirittura del 43%. Secondo i dati Eurostat, nel periodo gennaio-settembre dello scorso anno le richieste sottoposte alle Commissioni territoriali sono state 58.665, nello stesso periodo di quest’anno sono 85.050. Una crescita poco sottolineata eppure significativa che mostra come in poco più di un anno la situazione sia in rapida trasformazione.
Il caso degli eritrei
Prendiamo un caso eclatante: gli eritrei. Nel 2015 erano di gran lunga la nazionalità più presente nei viaggi attraverso il Mediterraneo eppure solo in pochissimi chiedevano asilo in Italia, nonostante le possibilità altissime di riconoscimento: quasi un eritreo su cento ha formulato la richiesta una volta arrivato nel nostro paese, 475 richieste d’asilo su 36.838 arrivati via mare.
Quest’anno le cose sono cambiate. La percentuale delle domande d’asilo sul totale degli arrivi è salita a circa un terzo. Dei 15.648 arrivati da Asmara tra gennaio e settembre, già in 5470 hanno fatto domanda, con un aumento di più del 2000 per cento in un anno.
A questo boom concorrono alcuni fattori decisivi. Da una parte il rafforzamento delle procedure di identificazione che spinge a chiedere asilo in Italia. Dall’altra, la chiusura di fatto delle frontiere verso il Nord Europa. Inoltre, per poter usufruire del programma di relocation (trasferimento in altri Stati membri dell’Ue) i cittadini eritrei devono fare domanda di asilo, salvo poi trovarsi bloccati qui a causa delle lentezze del programma stesso.
La prima nazionalità tra i richiedenti asilo in Italia è quella dei nigeriani: 19% delle domande, pari a 16.381. Seguono il Pakistan (13%) e il Gambia (8%). Certo, è possibile che alcune domande non siano fondate e che non tutte avranno un esito positivo. Tuttavia non è lecito presumere nulla – come fa invece molta propaganda populista in questo periodo – fino alla conclusione dell’esame delle domande presso le Commissioni.
L’articolo 1 della Convenzione di Ginevra del 1951 applica il termine rifugiato a: «Chiunque nel giustificato timore d’essere perseguitato per ragioni di razza, religione, cittadinanza, appartenenza a un determinato gruppo sociale o per opinioni politiche, si trova fuori dello Stato di cui possiede la cittadinanza e non può o, per tale timore, non vuole domandare la protezione di detto Stato; oppure chiunque, essendo apolide e trovandosi fuori dei suo Stato di domicilio in seguito a tali avvenimenti, non può o, per il timore sopra indicato, non vuole ritornarvi». Il diritto a chiedere asilo, e questo lo si dimentica spesso, non è legato alla nazionalità delle persone. Nei paesi che hanno sottoscritto la Convenzione, e il successivo Protocollo del 1967, non si ottiene lo status di rifugiato grazie alla propria carta d’identità ma grazie al riconoscimento di una persecuzione oggettiva e dimostrabile.
È quello che si definisce un “diritto soggettivo perfetto” che chiunque può esercitare indipendentemente da ogni condizione personale (inclusa l’origine nazionale). E questa è la risposta migliore, e in punta di diritto internazionale, da dare ai molti “imprenditori della paura dell’immigrato”.
Non c’è, poi, solo lo status di rifugiato tra quelli che è possibile riconoscere a chi arriva in Europa domandando protezione. Se politici e media ostili all’immigrazione ricordano spesso come l’Italia conceda a solo il 5% dei richiedenti asilo lo status di rifugiato, non vale la deduzione fallace per cui il restante 95% andrebbe cacciato dal nostro paese. Va considerato, almeno, che nei primi nove mesi del 2016 il 19% dei richiedenti asilo ha ottenuto (in prima istanza) un permesso di soggiorno per motivi umanitari, il 14% la protezione sussidiaria. Il 38% dei richiedenti ha ottenuto quindi una forma di protezione in Italia.
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