L’analisi della strategia narrativa utilizzata dai media per raccontare le stragi del Mediterraneo dal 2015 ai primi mesi del 2016
Di Francesca Romana Genoviva
Secondo l’Alto Commissariato Onu per i Rifugiati, nel 2016 sono morte 3167 persone nel tentativo di attraversare il Mediterraneo (erano 1850 nei primi sei mesi del 2015). Il racconto di questi episodi, sempre più frequenti, da parte dei giornali italiani si scontra con la necessità di prevenire l’effetto assuefazione. Come evitare che il lettore si abitui a considerare questi eventi drammatici come routine?
11.112: è il numero di morti e dispersi in mare nel tentativo di raggiungere l’Europa negli ultimi tre anni. L’equivalente di una piccola città. Il calcolo, effettuato dall’Unhcr, inizia con la strage di Lampedusa del 3 ottobre 2013, in cui persero la vita 368 persone.
Secondo l’Alto Commissariato Onu per i Rifugiati, nel 2016 sono morte 3167 persone nel tentativo di attraversare il Mediterraneo (erano 1850 nei primi sei mesi del 2015).
Il racconto di questi episodi, sempre più frequenti, da parte dei giornali italiani si scontra con la necessità di prevenire l’effetto assuefazione. Come evitare che il lettore si abitui a considerare questi eventi drammatici come routine?
La strategia narrativa dei media è cambiata diverse volte negli ultimi tre anni. In generale, cresce la tendenza a ricostruire la notizia non solo con la narrazione dei fatti, ma con tutti gli strumenti resi disponibili dall’uso di internet: dalla mappe per la localizzazione esatta degli incidenti alle infografiche per renderne le dimensioni; dalle immagini dei soccorsi, alle testimonianze audio e video registrate dagli stessi migranti durante il loro viaggio.
Non solo; la progressiva evoluzione del linguaggio e dei temi, senz’altro finalizzata a coinvolgere il pubblico, ha assunto nel tempo un altro obiettivo: la ri-umanizzazione delle vittime che, tramite il racconto delle loro storie, cessano di essere dei numeri per ridiventare persone.
Lampedusa, 3 ottobre 2013
Nel naufragio di un barcone a poche miglia dalle coste dell’Isola dei Conigli perdono la vita 368 persone, probabilmente a causa di un incendio sviluppatosi a bordo. Il numero dei morti è solo indicativo, perché il relitto, affondando, trascina con sé decine di persone. Due settimane dopo parte Mare Nostrum, l’operazione di ricognizione dei mari e salvataggio dei migranti organizzata dall’Italia. Possiamo far iniziare qui l’analisi, perché, per molti versi, la strage di Lampedusa rappresenta un giro di boa nel racconto mediatico delle migrazioni.
Si tratta di un evento che, oltre ad avere una forte carica emotiva, ha una immediata ricaduta politica, in relazione all’abolizione del reato di clandestinità. Il racconto giornalistico esce dalla routine per entrare in una nuova dimensione narrativa. (per approfondire si veda il rapporto “Notizie alla deriva”)
Come spiega Marco Bruno, ricercatore della Sapienza, “anche se è impossibile stabilire un esatto rapporto di causa-effetto, di fatto nel 2013 la visita del Papa a Lampedusa e il naufragio di ottobre cambiano la narrazione del fenomeno degli sbarchi”. Infatti diminuisce, fino a scomparire, il riferimento al “clandestino” e si inizia a inquadrare la figura del migrante come “rifugiato” (qui un’analisi del cambiamento delle ricerche effettuate su Google tra il 2005 e il 2015), raccontando storie personali e moltiplicando i punti di vista. Da questo momento lo sbarco, “una immagine simbolo, un’icona del fenomeno migratorio”, verrà trattato meno in chiave di invasione e più in relazione al soccorso, al naufragio, al lutto.
Rifugiati Vs Clandestini su Google Trends
I giornali italiani presentano il naufragio di Lampedusa come una “strage di migranti” (la Repubblica), anzi, “la più grande tragedia di sempre” (Il Sole 24ORE), “un mare di cadaveri” (Il Secolo XIX); come dichiarerà il sindaco di Lampedusa, Giusy Nicolini, “Il mare è pieno di morti”. L’evento, oltre ad aprire i giornali del giorno dopo, è seguito e approfondito per diversi giorni nei quotidiani e nei talk show, contrapponendo il dibattito tra attori istituzionali alle testimonianze dei sopravvissuti.
Garabouli, 23 agosto 2014
Tra luglio e settembre 2014 si contano 27 incidenti in mare. Con Lampedusa si apre la fase mediatica delle tragedie di massa, dove l’enfasi viene posta sui grandi numeri, a confronto con gli sforzi solitari dell’Italia nella gestione degli sbarchi: “Partenze a raffica, un gommone dietro l’altro” (la Repubblica, 13 maggio 2014); Un altro barcone naufraga. Morti oltre 200 (La Stampa, 24 agosto 2014); Il bilancio di sangue di Mare Nostrum. Mai così tanti morti in mare (il giornale, 25 agosto 2014); L’Onu: nel Mediterraneo 2000 morti (Avvenire, 27 agosto 2014)Libia, 170 dispersi. I corpi riaffiorano in mare (Corriere della Sera, 28 agosto 2014). E ancora: In cinque giorni 800 migranti annegati (Corriere della Sera, 16 settembre 2014); Speronati dagli scafisti muoiono 500 migranti (La Stampa, 16 settembre 2014).
Il racconto assume toni drammatici, attraverso due strumenti, uno espressivo, l’altro narrativo. Il primo riguarda la scelta dei termini, che va a formare una sorta di vocabolario giornalistico della tragedia: “ecatombe, bollettino di guerra, drammatico censimento, trafficanti di morte” sono solo alcune delle espressioni usate. Frequente l’assimilazione del mar Mediterraneo a un cimitero; nelle cronache di Repubblica abbondano gli aggettivi: “sconcertante, sconvolta, straziante”.
Come strumento narrativo, i giornali ricorrono alle testimonianze dei soccorritori e degli operatori delle ong: il 16 settembre 2014, subito dopo il naufragio a largo di Malta (quasi 500 dispersi), i principali quotidiani aprono con l’appello alla solidarietà di Carlotta Sami, portavoce Unhcr, seguito dal racconto del viaggio di Angelina Jolie nell’isola, al fianco dell’Alto commissario Onu per i rifugiati, Antonio Guterres.
“Quello a cui si assiste in questi anni è una moltiplicazione delle fonti”, riflette Marco Bruno, “ed è senz’altro un fenomeno positivo”. Infatti, fermarsi alle fonti istituzionali riduce notevolmente la comprensione del problema, mentre raccontare le storie dei migranti, o parlare con gli operatori umanitari aiuta a comprendere il fenomeno, quindi anche a sensibilizzare chi non è esperto del tema. In questo senso qualunque forma di diversificazione che non si riduca alla mera aneddotica non può essere giudicata che in modo favorevole”.
È un momento di estrema difficoltà per l’Italia, non solo nella gestione delle coste ma anche a livello interno: il dibattito politico, fermato solo per qualche ora dopo la strage di Lampedusa, riesplode proprio intorno all’operazione di pattugliamento del mare. Da un lato, infatti, vi è la percezione che l’Europa lasci l’Italia sola nel fronteggiare l’emergenza migrazione; dall’altra, proprio la tempestività di Mare Nostrum viene strumentalizzata e accusata di favorire la tratta di migranti. Restano nella memoria le parole del leader leghista Matteo Salvini, che a proposito dei naufragi dichiara: “Sono morti che pesano sulla coscienza dei folli alla Mare Nostrum […] hanno capito che basta un colpo di telefono e la marina italiana va a fare il servizio taxi” (12 maggio 2014).
I giornali riportano gli appelli politici all’intervento europeo in materia di immigrazione, da quello del ministro dell’Interno, Alfano (“mentre salviamo le vite umane siamo soli”, repubblica.it, 13 maggio 2014) a quelli dell’allora ministro degli Esteri, Federica Mogherini, e del presidente della Camera, Laura Boldrini.
L’Onu: strage di migranti, aiutate Roma (Corriere della Sera, 27 agosto 2014); La doppia solitudine dei migranti (la Repubblica, 26 agosto 2014).
La stampa italiana tratta in modo abbastanza cauto, ma non neutrale, lo scontro in corso: infatti “probabilmente non bastano più gli sforzi che l’Italia sta facendo” (la Stampa, 12 maggio 2014), ma vi è l’impressione che “Frontex non abbia mezzi e voglia per sostituirsi in toto a Mare Nostrum” (il Sole 24ORE, 26 agosto 2014).
Tra tutti i quotidiani, una menzione a parte merita il manifesto, che, oltre a registrare con accuratezza gli incidenti in mare, inaugura una serie serrata di articoli che attaccano l’Unione Europea, sottolineando il contrasto tra le dichiarazioni di commiato seguite alle stragi e l’atteggiamento immobilista (Tre naufragi in poco più di due giorni. Nel Mare Nostrum si contano i morti, 26 agosto 2014; Mediterraneo, mattanza che lascia indifferenti, 16 settembre 2014). Il quotidiano vuole non solo informare, ma indignare il lettore, denunciando la gravità e l’urgenza della situazione; una linea editoriale che sfocerà nella copertina dedicata al piccolo Alan un anno dopo.
Libia, 18 aprile 2015
Sotto le pressioni internazionali, il 1° novembre 2014 Triton, operazione di pattugliamento delle frontiere marittime gestita dall’Agenzia europea per il controllo delle frontiere, prende il posto di Mare Nostrum. Pur con molti dubbi circa l’utilità della missione internazionale, limitata a 30 miglia dalle coste e avente la funzione di presidiare i confini, l’Italia non è più sola nel fronteggiare gli arrivi.
Le stragi in mare, però, non sono finite. Il 18 aprile 2015 un peschereccio carico di migranti si inabissa in acque libiche: alla vista del mercantile portoghese giunto in soccorso, le centinaia di persone a bordo si spostano su un lato, facendo affondare l’imbarcazione. Il bilancio è di non meno di 700 morti.
Il naufragio del peschereccio riporta sui giornali gli attacchi all’Ue, alle istituzioni che tradiscono i valori originari di solidarietà: anche se lo “spettacolo spettrale non cambia mai” (Cimitero mediterraneo, Corriere della Sera, 20 aprile), la strategia europea resta al palo: “Triton si rivela per quello che è: un’illusione, un’operazione di polizia, niente di paragonabile a Mare Nostrum”, che invece aveva una missione umanitaria (Un tratto di mare senza controlli e i ritardi, il disastro annunciato di Triton, la Repubblica, 20 aprile).
Per “la più grave sciagura del mare del dopoguerra”, i giornali usano nuovamente il dizionario enfatico del dramma: per l’Ansa un viaggio di “disperati” verso la “terra promessa” si è trasformato in un “affare” per “scafisti senza scrupoli”.
I giornali attivano i loro editorialisti migliori per commentare quello che da più parti è indicato come Il naufragio dell’Occidente (Ezio Mauro su la Repubblica, 21 aprile), o dei valori europei (Bill Emmott per la Stampa), per narrare la fine di quanti Sono morti sognando l’Europa (Gian Antonio Stella, il Corriere della Sera, 20 aprile).
Di nuovo, il manifesto è in prima linea: nel dar conto dell’ultima strategia proposta per prevenire le stragi (quella di distruggere i barconi prima che possano lasciare i porti libici), il giornale romano dipinge l’Europa come “culla dell’inciviltà”, un “tribunale che si è arrogato il potere di decidere quali uomini, donne, bambini salvare” (I sommersi che nessuno vuole salvare, 21 aprile). Sulle pagine del quotidiano viene anche pubblicata la Lettera aperta all’Unione Europea (23 aprile), dove intellettuali e giuristi propongono di punire il traffico di migranti come un crimine di guerra, paragonandolo a uno sterminio.
Bodrum, 2 settembre 2015
Sulla spiaggia di Bodrum, in Turchia, un macabro ritrovamento: il mare ha abbandonato dodici cadaveri sul bagnasciuga, ciò che rimane di un viaggio fallito alla volta di Kos. Il 3 settembre, il manifesto apre con la foto di Alan Kurdi scattata da Nilufer Demir, col celebre titolo “Niente asilo”. Lo scatto fa il giro del mondo. I giornali si dividono intorno alla scelta della pubblicazione di una immagine così forte: “Diffondere la sua foto ci consente di illuderci di non averlo abbandonato fino in fondo?”, si chiede Ferruccio Sansa (il Fatto Quotidiano, 4 settembre).
Gli stessi giornali fanno a gara per raccontare la storia del bambino con la maglietta rossa e i calzoncini blu, sfuggito alla guerra per finire cadavere su una spiaggia. Il dramma di Alan e del fratellino Galip viene raccontato a tuttotondo, con le foto di famiglia, le parole del nonno, seguendo il padre nel viaggio per seppellire i figli.
Con la morte del piccolo Alan inizia una nuova fase della narrazione dei naufragi: la strage dei bambini, “la tragedia nella tragedia dei profughi” (La Stampa). Mentre l’Europa chiacchiera muoiono altri 15 bambini (il Giornale, 15 settembre); Nuova strage degli innocenti, 13 morti (il Tempo, 21 settembre); Altri due bambini morti sulla spiaggia di Kos (La Stampa, 5 ottobre); Naufragio in Turchia, strage di bambini. Europa alza muri (La Sicilia, 5 novembre); La strage dei bimbi in fuga (Corriere della Sera, 10 dicembre); Un’altra strage di bimbi. Muoiono in 18 tra Turchia e Grecia (il Giornale, 29 gennaio 2016).
Il 10 dicembre viene divulgato un rapporto della fondazione Migrantes, secondo cui nel 2015 i bambini che hanno perso la vita in mare sono oltre 700. La notizia è su tutti i giornali, accompagnata da interviste ad operatori umanitari (Avvenire), intellettuali (L’Unità), editoriali (la Repubblica pubblica in prima pagina Khaled Hosseini). Il messaggio è uno: “mai più Alan” (L’Unità, 10 dicembre), ma la cronaca dello stesso giorno parla di 5 bambini affogati nel naufragio vicino Farmakonissi, dei sette morti al largo di Smirne appena qualche ora prima.
Nonostante l’indignazione e le promesse, nonostante i “mai più”, i naufragi continuano.
È “la banalità del mare”, come scrive Francesco Battistini, dieci piccoli Alan muoiono “senza foto e senza copertine” (Corriere della Sera, 20 dicembre). Alla fine del maggio scorso fa il giro di internet la foto della piccola Favour, nove mesi, sbarcata a Lampedusa senza la mamma, in braccio al dottore che l’ha soccorsa. Il mondo si commuove, è gara alle richieste di adozione.
In generale, nel 2015 l’attenzione mediatica al fenomeno migratorio è imponente, con una moltiplicazione delle notizie sia sulla carta stampata (1452 titoli in prima pagina nei primi dieci mesi, con incrementi significativi rispetto all’anno precedente) che nelle edizioni prime time dei telegiornali delle tv generaliste (più di 3400 notizie: un record). In entrambi i casi, più della metà (55%) delle news riguarda il tema dell’accoglienza (55%); circa un quinto di articoli e servizi coprono i flussi migratori (per approfondire, si veda il rapporto “Notizie di confine”).
Sabratha, 26 maggio 2016
Negli stessi giorni, il cimitero Mediterraneo accoglie altri morti: qualcuno parla di 700, altri di 900. È il drammatico bilancio di tre naufragi avvenuti in meno di una settimana.
Naufragio nel Canale di Sicilia, strage di bambini in mare (ilgiornale.it, 29 maggio); Barcone affondato, la strage dei bambini: sono annegati in quaranta (palermo.repubblica.it, 29 maggio)
Particolarmente drammatico il caso dei due barconi partiti da Sabratha, l’uno a rimorchio dell’altro: quando il secondo inizia a imbarcare acqua, gli scafisti non esitano a tagliare la fune che li lega, sacrificando quattro, forse 500 persone.
La nuova cifra del racconto delle stragi e degli sbarchi sembra essere questa: la crudeltà degli scafisti, le difficoltà estreme del viaggio, sempre raccontate attraverso esempi concreti. Come la minorenne giunta in Italia incinta, che all’esame del medico risulta essere stata stuprata; o le tante donne minacciate di aborto. Sono di nuovo gli operatori umanitari i primi testimoni, perché con loro i migranti si sfogano, mostrando i segni fisici e psicologici della tortura.