Le iniziative sulla salute mentale in Uganda offrono ai rifugiati la possibilità di superare il dolore e l’isolamento – e prevengono ulteriori suicidi.
Di Rocco Nuri nell’insediamento di Bidibidi, Uganda | 24 gennaio 2020
Quando uno psicologo ha chiesto a Rose* di scegliere il volto che più rappresentava il suo stato d’animo, lei ha esitato, si è morsa il labbro e poi ha indicato un viso con gli occhi aperti e la bocca piatta e chiusa.
Rose non si sentiva né felice né triste, e questo di per sé era un miglioramento.
Prima di arrivare a Bidibidi, campo di 230.000 rifugiati in Uganda, Rose era stata costretta a fuggire dal conflitto in Sud Sudan ed era stata testimone dell’assassinio del marito.
Dopo essere stata salvata da un tentato suicidio da suo figlio di dieci anni, ha partecipato regolarmente a sessioni di consulenza di gruppo negli ultimi mesi.
Le lacrime scendono sul viso di Rose, ma non si sente più in imbarazzo.
“Sono consapevole di non essere felice della mia vita, ma almeno ora so che non c’è da vergognarsi di sentirsi così”, ha detto Rose, 33 anni.
Nel 2019 il numero di suicidi e tentativi di suicidio tra i rifugiati sud sudanesi che vivono negli insediamenti in Uganda è più che raddoppiato rispetto all’anno precedente, ha rilevato l’UNHCR, l’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati. Ci sono stati 97 tentativi di suicidio, con 19 morti.
Sebbene il suicidio sia un problema comune in tutta la popolazione dell’Uganda settentrionale, l’aumento dei suicidi tra i rifugiati in luoghi come Bidibidi illustra un problema crescente: il disperato bisogno di servizi di assistenza psichiatrica per le persone che sono fuggite dalla crisi, hanno perso le loro reti di supporto e hanno lottato per guadagnarsi da vivere nel loro Paese d’asilo.
Più di 2 milioni di sud sudanesi, la maggior parte dei quali donne e bambini, sono fuggiti dalla loro patria a causa del brutale conflitto tra il governo e i partiti dell’opposizione. Il 40% dei rifugiati sud sudanesi vive in Uganda. Molti sono stati testimoni o hanno subito aggressioni, abusi sessuali e torture prima o durante la fuga.
Secondo una valutazione congiunta dell’UNHCR e delle organizzazioni partner del 2018, il 19% delle famiglie di rifugiati nel nord dell’Uganda riferisce che almeno un membro della famiglia ha sofferto di disagio psicologico o ha avuto paura.
Meno della metà degli intervistati ha dichiarato che quella persona aveva accesso a cure psicosociali, come la consulenza individuale, la terapia di gruppo e la meditazione.
Ci sono pochi programmi di prevenzione dei suicidi come quello a cui ha partecipato Rose, gestito da un’organizzazione non governativa locale, la Transcultural Psychosocial Organization (TPO), con il sostegno dell’UNHCR. L’anno scorso l’organizzazione ha raggiunto 9.000 rifugiati e persone del luogo nell’insediamento di Bidibidi e dintorni, consigliandoli su come gestire i pensieri negativi, impegnarsi in attività sociali e chiedere aiuto.
Ha anche gestito programmi per aiutare a eliminare lo stigma associato alla salute mentale, ha formato le persone che forniscono assistenza sanitaria e ha messo a disposizione consulenti di comunità.
“Hanno attraversato decenni di guerre brutali”.
L’UNHCR e i suoi partner si sono assicurati solo il 40% dei 927 milioni di dollari necessari per assistere i rifugiati e le comunità ospitanti in Uganda nel 2019. Con finanziamenti così limitati, TPO e altre organizzazioni che forniscono salute mentale e supporto psicosociale hanno raggiunto solo il 29% dei rifugiati sud sudanesi bisognosi dei suoi servizi e anche una percentuale più piccola di membri della comunità locale.
Le prospettive di finanziamento per il 2020 non sono promettenti, e sarà impossibile sostenere programmi efficaci di salute mentale – o anche identificare chi ha bisogno di aiuto – senza maggiori finanziamenti da parte dei governi, del settore privato e di altri donatori.
Secondo un recente briefing dell’UNHCR su questo tema, i fattori chiave che contribuiscono a un più alto tasso di suicidio sono stati gli episodi di violenza sessuale e di genere, gli eventi traumatici sia prima di fuggire dal paese d’origine sia dopo l’arrivo in un insediamento di rifugiati, l’estrema povertà e la mancanza di un significativo accesso all’istruzione e al lavoro.
Conoscere poche persone nei loro nuovi paesi ha contribuito a far sentire i rifugiati isolati e impotenti.
Il quarantaduenne Adam*, padre di cinque figli, ha detto all’UNHCR che a sua moglie, Mary*, è stato diagnosticato un disturbo bipolare nel 2012 nella città di Yei, in Sud Sudan.
Le condizioni di Mary sono peggiorate dopo il loro arrivo nell’insediamento di Bidibidi nel settembre 2016. In una soleggiata giornata di giugno, Mary ha detto ad Adam che sarebbe andata a casa di suo fratello, ma non ci è mai arrivata.
Un vicino l’ha trovata impiccata a un albero di mango il giorno dopo.
“Mia moglie non riusciva ad accettare il fatto che non era più in grado di cucinare, di occuparsi del raccolto e di spazzare il cortile. Non riusciva a sopportare la stanchezza persistente”, ha detto Adam.
“Non aveva amici qui per condividere i suoi sentimenti e le sue preoccupazioni. I nostri vicini non volevano avere a che fare con noi a causa dei problemi mentali di mia moglie. Penso che sia questo che l’ha distrutta nel profondo”.
Anche nelle comunità ospitanti si sono verificati casi di problemi di salute mentale.
Secondo lo studio congiunto del 2018, il 27% delle famiglie dell’Uganda settentrionale ha riferito che almeno un membro della famiglia ha sofferto di disturbi psicologici.
“Hanno molto in comune con i rifugiati del Sud Sudan”, ha detto Charles Olaro, direttore dei servizi di cura del Ministero della Salute dell’Uganda.
“Anche loro hanno attraversato decenni di guerre brutali, esodi, epidemie, privazioni e traumi non curati per generazioni”.
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Nella città di Yumbe, a circa 30 chilometri a ovest dell’insediamento di Bidibidi, diverse persone del luogo si sono tolte la vita di recente, tra cui il sedicenne Andrew*. Il giovane tifoso di calcio aiutava la madre a vendere zoccoli di mucca dopo la scuola e faceva commissioni per guadagnarsi la paghetta. È morto lo scorso ottobre.
Il padre di Andrew aveva abbandonato la famiglia e sua madre aveva a malapena i soldi per mantenerla. Lucy ha detto che la sua famiglia aveva precedenti di suicidio. Ma ha insistito che sia stata la stregoneria ad uccidere suo figlio.
“Non c’è altra spiegazione”, ha detto Lucy.
“I vicini gli hanno fatto un incantesimo perché mi invidiavano per avere un ragazzo in grado di badare alla casa e di guadagnarsi i suoi soldi”.
Rose, Adam, Lucy e i loro figli ricevono regolarmente sostegno psicosociale da TPO, sia individualmente che in gruppo. Condividono le loro storie e stringono amicizie.
“La consulenza mi ha aiutato a ritrovare la speranza e l’amore per me stessa”, ha detto Rose.
*Nomi cambiati su richiesta degli intervistati
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