Dopo la fuga, nel 2012, il ritorno a casa. Ma ad attendere i membri della famiglia ci sono solo le macerie del vecchio quartiere, tutto da ricostruire. Proprio come le loro vite.
Dal tetto di un edificio, un paio di occhi castani osserva la città distrutta. Ovunque si posi lo sguardo, non si vedono che macerie. Edifici crollati gli uni sugli altri, rovine straziate dalla guerra.
Ma lo sguardo di Abdelmalik, 12 anni, non si concentra sulla distruzione. È rivolto più in alto, a uno stormo di una quarantina di piccioni che volteggia sopra di lui. Erano in una piccionaia, prima che il ragazzo li lasciasse liberi di sgranchirsi le ali.
“Abbiamo sempre allevato piccioni, sin da quando ero piccolo,” racconta. “Mi piace giocare con loro, soprattutto coi pulcini.”
Abdelmalik e la sua famiglia vivono ad al-Qusour, un tempo un quartiere residenziale della città di Homs. Suo padre Jihad, 44 anni, ha vissuto lì per molti anni, sin da quando era ragazzo.
Anni di feroci combattimenti hanno svuotato il quartiere, che oggi non dà quasi più segni di vita. Pochi hanno osato fare ritorno all’edificio, solo una mezza dozzina di famiglie delle oltre cento che vi risiedevano prima della guerra.
Un microcosmo della Siria, in un certo senso. Lo scorso anno, circa 1,4 milioni di persone sfollate all’interno del paese hanno fatto ritorno alle proprie case; oggi si trovano a dover ricominciare da zero e lottano per ricostruire le loro vite. Ma ci sono ancora 6 milioni di sfollati all’interno della Siria.
Abdelrahman, che ha 15 anni ed è il fratello maggiore di Abdelmalik, ricorda la fuga da Homs, avvenuta nel 2012. “È come se fossimo stati senza casa,” racconta. “Stavamo dormento, e tutt’intorno sono cominciate le esplosioni. Siamo fuggiti così come eravamo, senza nient’altro che i vestiti che avevamo addosso.”
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Dapprima si sono diretti a nord, a Hama, ma il padre faceva fatica a trovare lavoro e gli affitti continuavano ad aumentare, costringendoli così a spostarsi continuamente da un posto all’altro.
“Abbiamo perso tre anni di scuola,” spiega Abdelrahman. “Ogni volta che iniziavamo a studiare in una scuola, dovevamo andarcene perché dovevamo spostarci un’altra volta.”
La famiglia ha fatto ritorno al governatorato di Homs nel 2015, ma nel quartiere erano ancora in corso i combattimenti, così hanno provato a trasferirsi nella campagna fuori città. Alla fine, dopo che i combattimenti si erano spostati altrove, Jihad ha potuto tornare a casa per valutare i danni.
“Immaginate di tornare e di non trovare più niente,” racconta davanti a una tazza di caffè, nel soggiorno spartano. “Niente porte né finestre, nemmeno la porta d’ingresso. Dormivamo su dei materassi. Non avevamo nulla.”
Lentamente, stanno cercando di rimettere insieme i pezzi. Con l’aiuto dei figli, Jihad ha rimosso i detriti e riparato pareti e soffitti. L’UNHCR, l’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati, ha incaricato un partner locale (il Progetto Aoun di Aiuto e Sviluppo – Aoun Project for Relief and Development) di installare porte e finestre per tenere la famiglia al caldo e al sicuro.
Fabbro e tuttofare per vocazione, Jihad è impaziente di fare di più. “Riparerò per voi ognuna di queste case,” dice, indicando con le mani callose gli edifici fatiscenti lungo la strada. “Datemi solo gli strumenti per farlo.”
Non è chiaro, però, chi andrebbe ad abitarvi. Il quartiere di al-Qusour è ancora privo di servizi di base, come acqua corrente, elettricità e negozi di alimentari.
Anche le scuole e gli insegnanti scarseggiano. Nonostante Abdelmalik e il fratello minore Majid el-Din, 9 anni, abbiano potuto ricominciare a studiare, Abdelrahman, il più grande, è rimasto indietro di vari anni e non ha potuto completare gli studi.
Anni di bombardamenti hanno gravemente danneggiato e reso instabili molti edifici. Jihad non sa se o quando i suoi vicini torneranno. Non tutti hanno il suo stesso istinto, che l’ha spinto a fare ritorno a casa.
Dal tetto, Jihad osserva insieme al figlio Abdelmalik i piccioni che sorvolano il quartiere. Poi tende un braccio e fischia.
Ci vuole qualche tentativo, ma alla fine i piccioni piegano le ali, cambiano direzione e volano in picchiata verso il tetto. Abdelmalik li attira nella piccionaia con delle briciole di pane raffermo, poi chiude con il chiavistello.
Sembrano essere spiriti affini, questi uccelli e i loro padroni. Come afferma Jihad, “Non esiste una casa migliore di quella che hai già.”
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