Jamilla Amadou ha dovuto lasciare la sua casa a Gao a causa della guerra. Ora ospita altre persone che sono dovute fuggire, e si prende cura dei malati in una città che ancora lotta per riprendersi.
Sin da quando frequentava la scuola elementare, Jamilla Amadou sapeva di voler diventare infermiera.
“Ero pronta a lottare per realizzare il mio sogno. Già mi vedevo con il camice bianco,” racconta sorridendo.
Oggi, all’età di 50 anni, questa donna formidabile è capo infermiera e responsabile di 40 tra infermieri e apprendisti nel Centre de Santé de Référence, a Gao. Questo ospedale opera in una regione del nord del Mali che conta circa 550.000 abitanti, molti dei quali sono sfollati a causa dei conflitti.
Anche Jamilla, come molti altri, ha dovuto abbandonare la sua casa. Nel 2012, quando Gao è stata invasa dai miliziani, è fuggita insieme alla sua famiglia e ad altre 80.000 persone, costrette ad abbandonare la città. Prima dell’attacco, Gao aveva 100.000 abitanti.
“La gente era terrorizzata,” ricorda Jamilla. “Abbiamo lasciato indietro tutto, la città si è svuotata. Siamo fuggiti a Mopti (un’altra città che si trova nell’area interessata dal conflitto). Lì lavoravo per i bambini malnutriti.”
I miliziani sono stati quasi completamente scacciati nel 2013. Jamilla è tornata a Gao all’inizio del 2015, per scoprire che dell’ospedale non era rimasto che uno scheletro.
“Hanno distrutto tutto – le porte, le finestre, l’attrezzatura… hanno persino strappato le tende.”
Con l’aiuto di Ong e dell’UNHCR, l’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati, che ha finanziato l’installazione di un secondo serbatoio d’acqua per assicurare il soddisfacimento delle necessità dei pazienti, oggi l’ospedale ha ripreso a funzionare quasi normalmente.
Le giornate in ospedale sono lunghe e impegnative, i pazienti molto numerosi. Jamilla è la responsabile del personale infermieristico e degli apprendisti ma ogni mattina, dalle 7.30, visita i pazienti personalmente.
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In poco tempo riesce a visitare un paziente di 62 anni, che ha un tremendo mal di testa e la pressione sanguigna molto alta, e Mohammed, un insegnante di 33 anni con problemi renali e forti dolori al petto che ha percorso 450 chilometri, viaggiando per due giorni e due notti per raggiungere Gao da una città nel nord del paese, dove non ci sono ospedali.
Jamilla prescrive a Mohammed degli esami per i reni, poi visita altri pazienti. Normalmente, ogni giorno ci sono fino a 35 pazienti con malattie gravi o più comuni, come malaria, febbre tifoidea, gastroenterite, diabete.
La seguono nel giro dei reparti apprendisti e volontari come Ali Maiga, 20 anni. Il giovane sognava di completare gli studi per diventare un infermiere come Jamilla, ma la sua famiglia non aveva più soldi. Ora lavora all’ospedale come volontario, sperando di trovare, un giorno, i soldi di cui ha bisogno per realizzare il suo sogno.
“Voglio aiutare le persone,” spiega. “Qui ci sono bambini che hanno perso i genitori. Voglio servire la comunità lavorando qui.”
Quella degli infermieri è una vocazione. E per Jamilla non si finisce mai di prendersi cura delle persone. Alla fine della giornata si affretta per tornare a casa sul suo motorino e ricomincia da capo. Nel labirinto di stanze che compongono la sua casa, Jamilla si occupa di una grande famiglia di cui fanno parte sua madre, sua sorella, i suoi due figli, tre nipoti, il fratello Abdullah, di 37 anni e disabile sin dalla nascita e infine, a seconda della settimana, tra 20 e 30 altre donne che riempiono due stanze e dormono su dei materassi.
Sono tutte donne sfollate, costrette ad abbandonare la città di Hombori, nel centro del paese, dopo che i miliziani hanno distrutto le loro piantagioni di tabacco e miglio. Fumare tabacco è infatti considerato peccato dai miliziani, che fanno periodicamente ritorno in città per spargere il terrore tra gli abitanti e impedire che nuove piantagioni vengano coltivate.
Aminata, 33 anni, è una delle donne sfollate che ha trovato rifugio a casa di Jamilla. Dorme in una delle stanze con la figlia di cinque anni, anche lei si chiama Aminata. Gli altri tre figli sono rimasti con i nonni, in città.
“Ogni tanto i gruppi armati ritornano,” spiega. “Laggiù non c’è lavoro. Abbiamo ancora paura.”
Jamilla oscilla tra pessimismo e ottimismo. “Non nutro molte speranze per il futuro dei miei figli. Le scuole sono chiuse per via degli scioperi, gli insegnanti dicono di non essere stati pagati. Ma le cose sono migliorate, almeno un po’. Non respingerò mai le persone che accolgo in casa mia.”
“Non ci arrenderemo. Ma abbiamo bisogno di aiuto, soprattutto da fuori. Questa è la nostra regione, la nostra città. Lavorerò per essa fino al mio ultimo respiro.”
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