Una volta, chiedere aiuto era considerato un tabù. Oggi, invece, giovani rifugiati volontari in Bangladesh vogliono dimostrare ai loro coetanei che è possibile parlare delle proprie preoccupazioni e della propria tristezza.
COX’S BAZAR, Bangladesh – Per dimensioni e complessità, i campi di rifugiati che compongono l’insediamento di Cox’s Bazar sono paragonabili a vere e proprie città. Città di rifugiati.
Cox’s Bazar ha circa 720.000 abitanti, e affronta sfide e problemi particolari.
L’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati Filippo Grandi siede in cerchio con 18 bambini e ragazzi di età compresa tra i 12 e i 17 anni, e li osserva mentre sono impegnati in una complessa coreografia di domande e risposte, inframmezzate da danze ed esercizi.
Sono rifugiati Rohingya, per lo più costretti a fuggire insieme alle loro famiglie dalle terribili violenze e dalle atrocità commesse contro la loro comunità in Myanmar.
Quei giovani sono alla guida di un innovativo progetto dedicato alla salute mentale, elaborato per aiutarli a parlare delle loro preoccupazioni e della loro tristezza in questo gigantesco insediamento di rifugiati. All’inizio vi partecipavano solo un paio di gruppi, ora ce ne sono 40.
L’innovazione più importante è il fatto che a guidare la discussione sono i ragazzi – Myshara, una giovane di 13 anni, e Abdul Sukker, che ha 16 anni. Con la loro energia accompagnano i loro coetanei in un percorso che attraversa alcuni punti fondamentali, come il fatto che la malattia mentale non è una scelta, mentre la guarigione lo è, e che chiedere aiuto non è motivo di vergogna. Storie e illustrazioni completano le loro attività.
“Uomini e ragazzi tendono a nascondere i loro sentimenti,” ha affermato Abdul in un’intervista. “Chiedere aiuto è considerato segno di debolezza. Ma ora non abbiamo più alcuna esitazione.”
Lo scopo non è soffermarsi e rimuginare su traumi e orrori passati, ma fare i conti con la tristezza e le frustrazioni quotidiane. Anche se non si può evitare il passato. Il padre di Abdul è mancato nove mesi fa, e grazie a queste discussioni, come spiega il ragazzo, ora è in grado di parlare della sua perdita.
“Di notte lo sento vicino a me. Nel mio inconscio sento che Papà è lì. Si avvicina e vuole svegliarmi, per assicurarsi che io vada a scuola.”
Entrambi hanno sviluppato doti di leadership. Myshara racconta della sua nuova fiducia in se stessa. “Sono contenta di aiutare gli altri. Questo progetto è stato qualcosa di completamente nuovo per noi, eravamo un po’ spaventati. Ma ora siamo felici e vogliamo condividere quello che abbiamo imparato nel campo. Tutto questo ci aiuta a superare i periodi bui.”
Benché questi gruppi di discussione facciano bene a coloro che vi partecipano, non si può ignorare la frustrazione, soprattutto quella dei ragazzi più grandi e promettenti. Filippo Grandi accompagna Myshara a casa, dove il padre della ragazza esprime la propria determinazione a far sì che le sue quattro figlie possano istruirsi, e poi a un centro di apprendimento.
Visitando la scuola, l’Alto Commissario ha potuto rendersi conto dei limiti dei programmi di istruzione nel campo. L’istruzione formale non è permessa, e i programmi delle scuole esistenti coprono solamente i primi anni della formazione elementare. Nulla lascia intendere che verrà creato un sistema per permettere il proseguimento degli studi secondari e l’ottenimento di diplomi.
Sia Myshara che Abdul lamentano il fatto che le lezioni non li fanno sentire stimolati, e che sentono di non imparare quasi nulla. Filippo Grandi, riconoscendo la loro frustrazione, ha lanciato un appello a nome di questi bambini e ragazzi promettenti, in esilio nel campo.
“È una vera leader,” ha affermato l’Alto Commissario a proposito di Myshara. “Questa giovane rifugiata dimostra che anche nelle situazioni più dolorose e sconfortanti, e in contesti caratterizzati da notevoli privazioni, dare un’opportunità alle persone permetterà loro di condividere quel che imparano, di prosperare e di ottenere moltissimo.”
Per quasi tutti, però, le porte dell’istruzione restano irrimediabilmente chiuse. Un esperto di salute mentale dell’UNHCR ha sottolineato il rischio che questi bambini finiscano per costituire una “generazione perduta”.
Cox’s Bazar ha anche altri motivi di preoccupazione. Filippo Grandi ha incontrato alcuni dei rifugiati Rohingya che si sono offerti volontari per proteggere il più possibile gli abitanti dell’insediamento dagli effetti devastanti che si prevede avranno gli imminenti monsoni e cicloni.
Nel Campo 21, 50 rifugiati volontari vanno porta a porta a coppie, costituite da un uomo e una donna, per avvertire gli abitanti degli alloggi situati sulle colline. Una di queste coppie, formata da Abdullah e Samuda, lavora in un’area dove l’anno scorso 20 alloggi sono stati trascinati giù dalle pendici della collina e distrutti dalle alluvioni.
Il lavoro dei volontari è molto frustrante. Gli abitanti hanno ricostruito i loro alloggi negli stessi punti, e non vogliono andarsene. “Quasi nessuno accetta di trasferirsi,” spiega Samuda. “Si spostano solo quando il fango si abbatte sulle loro case.”
Rehena Begum, giovane madre che vive con i suoi due bambini in uno degli alloggi a rischio, ha raccontato di quando l’alluvione si è portata via la sua casa. “Ero triste quando l’ho visto succedere, ma non voglio andarmene.”
A valle, i volontari hanno più successo. Squadre di rifugiati costruiscono muri di malta e mattoni, e canali progettati per raccogliere l’acqua delle piogge e portarla lontano dal campo. Gli uomini ricevono un piccolo stipendio giornaliero per il loro lavoro.
Ci sono nove coordinatori, e una di loro è una donna, Gulbahar, che è responsabile di 40 lavoratori. Normalmente, ogni giorno 20 persone lavorano sotto la sua supervisione.
Gulbahar ha sentimenti constrastanti nei confronti dell’imminente stagione dei monsoni. È pericoloso ma, come spiega, “mi piace questo lavoro, e mi permette di mantenere la mia famiglia.”
All’apparenza, dunque, questa città immensa è organizzata e si sta preparando alle emergenze. Ma al tempo stesso si trova in uno strano limbo, dato che la gran parte dei suoi abitanti non è in grado di lavorare, e la maggior parte dei bambini non ha la possibilità di studiare, cosa che rende la città estremamente dipendente dalla generosità dei donatori e dall’operosità degli stessi rifugiati per funzionare.
L’apparenza della stabilità ha i suoi problemi, ha affermato Filippo Grandi.
“Non dobbiamo dimenticare i rifugiati Rohingya. Sappiamo che altre crisi possono sopraggiungere, e che il mondo può dimenticare. È nel nostro interesse dare a questi rifugiati l’opportunità di imparare e costruire il futuro della loro comunità.”
Per questo occorre che la comunità internazionale investa nei rifugiati e nelle comunità che li ospitano.
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