Per quattro mesi, residenti e volontari a Pessat-Villeneuve, nella Francia centrale, hanno aiutato 60 rifugiati africani a costruirsi una nuova vita.
Sono quasi le cinque di un freddo pomeriggio di gennaio a Pessat-Villeneuve, dove cadono i primi fiocchi di neve dell’anno. L’atmosfera è calma, e un gruppo di rifugiati africani approfitta di una pausa dalle lezioni di francese.
È un giorno importante: come vuole la tradizione, il sindaco Gérard Dubois rivolgerà i propri auguri per il nuovo anno agli abitanti del paese e ai rifugiati da loro accolti.
Oltre ai suoi 653 abitanti, questa piccola cittadina della regione Puy de Dôme, nella Francia centrale, ospita 60 rifugiati provenienti da Niger e Ciad. Sono arrivati quattro mesi fa, e alloggiano nel castello del paese.
Alfatih, rifugiato sudanese di 25 anni, è uno di loro. Scherza e si diverte fuori dalla scuola dove studia il francese da circa quattro mesi.
“La prima cosa che ho notato di Pessat-Villeneuve è la gentilezza dei suoi abitanti”, dice. “Ci aiutano molto. Pessat-Villeneuve è una città molto piacevole”.
Appena quattro mesi prima, Alfatih si trovava a Goz Beïda, nel Ciad orientale. È la prima volta che vede la neve.
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Nel 2018 la Francia si è impegnata a reinsediare 3.000 rifugiati provenienti da Ciad e Niger entro la fine del 2019, compresi alcuni tra coloro che sono stati evacuati dalla Libia.
Attualmente i rifugiati vivono nel castello del paese, ed è l’associazione locale CéCler a prendersene cura. Gli operatori sociali e gli educatori li assistono nelle procedure amministrative, oltre che nella ricerca di un alloggio e di un lavoro, mentre dei volontari li aiutano nelle loro attività quotidiane, come fare la spesa o partecipare ad attività sportive.
Alfatih è fuggito dal Sudan quando era ancora un bambino. Aveva 10 anni quando le milizie Janjawid hanno attaccato il suo villaggio e ucciso suo padre davanti a lui.
“Un venerdì, mio padre era alla moschea”, ricorda Alfatih. “Mia madre mi disse di correre e di avvertirlo che il villaggio era sotto attacco. In preda al panico, tutti correvano nella direzione opposta e non sono riuscito a trovarlo. Quando sono tornato a casa, ho visto mio padre venire ucciso davanti ai miei occhi.”
Durante l’attacco Alfatih è stato separato dalla madre, dai fratelli e dalle sorelle. Dei membri della milizia armata l’hanno portato nella foresta, dove l’hanno picchiato e poi abbandonato. “Continuavo a piangere, non sapevo cosa fare.”
Per mesi ha vagato da un villaggio all’altro alla ricerca della sua famiglia, senza successo. Ha trovato solo uno zio, che l’ha preso sotto la sua ala, e insieme sono fuggiti in Ciad. Una volta arrivati nel paese, sono stati portati al campo di Goz Amer dall’UNHCR, l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati.
“Quando sono arrivato al campo, ero completamente esausto”, racconta il giovane. “Ero molto triste, finché ho ritrovato mia madre, i miei fratelli e le mie sorelle.”
Alfatih ha ripreso gli studi e ottenuto il diploma sudanese in Ciad, dove ha seguito anche dei corsi di agraria.
Più di una volta ha preso in considerazione l’idea di andare in Libia. Ne ha parlato varie volte con gli amici, ma alla fine è sempre rimasto in Ciad.
“Mia madre è stata operata a Goz Beïda,” dice. “Non è in buona salute, è malata di cuore. A volte stava meglio, altre molto male. Non abbiamo un padre che si occupi di noi e ci dia una mano, e dobbiamo studiare.”
Alfatih era l’unico membro della famiglia ad avere una formazione professionale, ma le sue prospettive erano limitate e la vita difficile.
“Non potevamo tornare in Sudan. Eravamo d’accordo: l’unica soluzione era andare in Libia e tentare il tutto per tutto. Dovevamo studiare. Eravamo nel campo da troppo tempo.”
“Molti dei miei amici sono andati in Libia. Non so dove siano ora.”
Il governo francese ha reinsediato a Digione la madre di Alfatih, oltre a due fratelli e alla sorella più piccoli, mentre Alfatih è stato portato con un fratello e una sorella a Pessat-Villeneuve.
Il reinsediamento è un modo per proteggere i rifugiati più vulnerabili, ma anche per evitare che intraprendano viaggi estremamente pericolosi. Nell’ultimo report (pubblicato il 30 gennaio) sulle rotte percorse dai rifugiati per mettersi al sicuro, l’UNHCR osserva che il numero dei rifugiati può essere calato in alcune zone, ma che permangono i pericoli che queste persone devono affrontare durante il viaggio.
Il report, dal titolo “Viaggi disperati” (Desperate Journeys), mostra in particolare l’aumento del tasso di mortalità per coloro che attraversano il Mediterraneo, e sottolinea il moltiplicarsi dei pericoli per i rifugiati come Alfatih, tra cui il rapimento e la tortura per ottenere un riscatto e la minaccia dei trafficanti, anche prima della traversata marittima più pericolosa al mondo.
Il report evidenzia anche i cambiamenti che hanno riguardato le rotte e gli spostamenti nel corso del 2018. A partire dal mese di maggio, sempre più persone hanno attraversato il mare per raggiungere la Spagna, rendendo il paese il principale punto d’ingresso in Europa per la prima volta dal 2008. I trafficanti hanno reso il viaggio più accessibile in un momento in cui la traversata è diventata più difficile dalla Libia.
Tra le raccomandazioni formulate, il report invita a trovare una risposta coordinata per i salvataggi in mare, ad accrescere il sostegno ai principali paesi d’arrivo, e ad adottare nuove misure perché gli autori di crimini contro rifugiati e migranti, inclusi i trafficanti, rispondano delle loro azioni.
Anche Ibrahim, rifugiato eritreo di 30 anni, vive a Pessat-Villeneuve. È stato reinsediato dal Niger in Francia dopo che l’UNHCR l’ha evacuato dalla Libia. Aveva già tentato per cinque volte la pericolosa traversata dalla Libia in Europa. In uno degli ultimi tentativi, la barca su cui viaggiava si è capovolta. È stato uno dei pochi sopravvissuti.
“Su 148 persone, solo 20 sono sopravvissute”, dice. Aggrappato a un pezzo di legno della barca insieme ad altre sei persone, è riuscito a rimanere a galla. Ora che sono al sicuro, Alfatih e Ibrahim vogliono riprendere gli studi.
Alfatih vorrebbe diventare medico oppure operatore sociale, per aiutare gli altri. Ibrahim vorrebbe invece lavorare nel settore agroalimentare.
“Sono convinto che si possa fare tutto quello che si vuole, se lo si vuole davvero”, sostiene Alfatih.
Nel suo discorso di fine anno, il sindaco Gérard Dubois ripercorre i momenti salienti dell’anno trascorso, citando con orgoglio l’accoglienza dei rifugiati nel castello del paese.
“Difenderò sempre il nostro paese, i suoi interessi, i suoi abitanti, i suoi amministratori comunali e i suoi valori”, dichiara il sindaco. “Farò da scudo contro l’odio, la xenofobia, il populismo e la mediocrità.”
“Cari amici, ci troviamo in territorio gallico. Prima di gustare le specialità preparate per noi, voglio svelarvi la ricetta segreta della pozione di Pessat-Villeneuve. Benché sia un segreto, potete condividerla col resto del mondo.”
“Mescolate un quarto di libertà, un quarto d’uguaglianza e un quarto di fratellanza. Aggiungete un pizzico di secolarismo e una buona dose d’ottimismo. Non dimenticate di innaffiare abbondantemente con la solidarietà.”
“Ed ecco, davanti a voi, un comune come Pessat-Villeneuve, un luogo umano, e tutto quello che noi siamo, insieme, liberi, fraterni, solidali e, semplicemente, umani.”
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